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Inchiesta Factotum

‘Ndrangheta in Piemonte, da partecipe a boss: condanna “storica” per Francesco D’Onofrio

La sentenza in abbreviato ribalta anni di processi. Il gup Mastri certifica ciò che collaboratori e boss dicevano da anni

Pubblicato il: 21/11/2025 – 14:32
di Giorgio Curcio
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‘Ndrangheta in Piemonte, da partecipe a boss:  condanna “storica” per Francesco D’Onofrio

LAMEZIA TERME Da anni il suo nome compare nelle centinaia di pagine tra ordinanze, informative o sentenze. Le inchieste hanno sempre riguardato la presenza della ‘ndrangheta in Piemonte che sia Torino oppure Carmagnola, il senso cambia poco se a legare il tutto è il filone giudiziario fatto di sentenze passate in giudicato. Eppure, nonostante gli anni alle spalle e le accuse, c’è voluta l’ultima sentenza – ancora primo grado in abbreviato – per indicarlo quale «capo promotore» e quindi boss della ‘ndrangheta in Piemonte. Ed è la prima volta.  

D’Onofrio «boss della ‘ndrangheta in Piemonte»

Già perché finora Francesco D’Onofrio – nella migliore delle ipotesi per l’accusa e la difesa – è sempre stato ritenuto al massimo un «partecipe» del locale di ‘ndrangheta nel territorio piemontese. Lì dove da decenni le cosche calabresi sono riuscite ad insediarsi nel tessuto sociale e soprattutto economico, creando – solo per citarne alcune – i locali di ‘ndrangheta di Ivrea e Volpiano. Le inchieste degli ultimi anni hanno disegnato i contorni di una sorta di ‘ndrangheta a “tre teste” in Piemonte, con a capo Antonio Agresta e Adolfo Crea. E, appunto, D’Onofrio, con quest’ultimo che è sempre riuscito a “sfuggire” da questa condanna. Fino a ieri. Fino a quando, cioè, il gup Benedetta Mastri del Tribunale di Torino lo ha condannato a 11 anni e 10 mesi, riconoscendo il vincolo della continuazione dei reati già giudicati in altre sentenze.

filca cisl Ceravolo piemonte
Domenico Ceravolo condannato a 8 anni, 10 mesi e 20 giorni

L’inchiesta Factotum

Il processo è quello nato dall’inchiesta “Factotum” della Distrettuale antimafia di Torino, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri. Quella per intenderci che avrebbe svelato il potere della ‘ndrangheta a Carmagnola dove il sodalizio è presente ed organizzato da più di un decennio, frutto di una forte immigrazione di famiglie calabresi, provenienti dal vibonese ed in particolare dalla cittadina di Sant’Onofrio, il regno indiscusso della famiglia Bonavota. Le investigazioni avevano fatto emergere la rilevanza del ruolo svolto, ai fini dell’operatività dell’associazione, di Domenico Ceravolo, torinese classe ’77, operatore sindacale e membro della segreteria della Filca-Cisl nel settore edilizio, settore di specifico interesse della consorteria. Per gli inquirenti della Dda di Torino è «un partecipe del sodalizio carmagnolese, al quale è legato da diversi anni» e per questo il gup lo ha condannato a 8 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione.

«Nella ‘ndrangheta sin dal 2006»

Francesco D’Onofrio, classe 1955 di Mileto, è considerato dall’accusa «affilialo alla ‘ndrangheta sin dal 2006» nonché partecipe, almeno fino al 2011, dell’articolazione ‘ndranghetista capeggiata dai fratelli Adolfo ed Aldo Cosimo Crea attiva a Torino. Il gup ha riconosciuto l’accusa più grave per D’Onofrio, ovvero quella di essere «dirigente ed organizzatore delta rete unitaria della ‘ndrangheta» in Piemonte. Un’accusa – quella di essere un boss della ‘ndrangheta – che D’Onofrio ha sempre negato con forza. Eppure, di D’Onofrio – ex militante di Prima Linea, in rapporti coi Colp (Comunisti organizzati per la liberazione proletaria) – ne hanno parlato per anni boss e gregari quasi tutti condannati all’esito dei processi. Secondo l’accusa avrebbe ricevuto la dote di «Padrino» in Calabria direttamente dai vertici dell’organizzazione a Siderno, centro balneare della costa Jonica.


Leggi anche: D’Onofrio e il “mistero” della pistola scomparsa: dalla ricerca su Google ai lavori in cantina


«È il nostro Luigi Mancuso»

A fare il suo nome e, soprattutto, a riconoscerne il peso criminale, è stato anche il collaboratore di giustizia Raffaele Moscato, classe 1986, “battezzato” per la prima volta nel 2010 all’interno della cosca di Piscopio. A luglio dello scorso anno, durante il processo “Maestrale-Carthago”, Moscato parlava di D’Onofrio come di un  «personaggio grosso, molto più di un capo cosca». E ancora: «Quando parlava D’Onofrio tutti stavano ad ascoltare, prendevamo in considerazione molto seriamente i suoi consigli, D’Onofrio a tutti gli effetti era il nostro Luigi Mancuso».  

Le due pistole trovate nella cantina di D’Onofrio

Le pistole e il caso Caccia

Per la Dda, e ora anche per il gup, il gruppo criminale ‘ndranghetista capeggiato da D’Onofrio era anche armato. Significativo più di tutto l’episodio ricostruito dagli inquirenti legato al possesso del 70enne di Mileto delle due pistole ritrovate nella cantina della casa del boss, arrivando ad interessare anche la Procura di Milano che – in una ipotesi ancora al vaglio – sostiene che una di queste armi possa aver sparato nell’omicidio del procuratore Bruno Caccia. (g.curcio@corrierecal.it)

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