Blitz antimafia contro il clan Strisciuglio, 12 arresti
Summit a Bari sotto i portici durante il Covid, decisi pestaggi e sparatorie

BARI Un gruppo retto da regole definite e condivise. Riti di affiliazione ispirati alla camorra per i nuovi componenti che venivano battezzati per ufficializzare l’ingresso in una organizzazione dedita allo smercio di droga e alle estorsioni. Attività che non si sono mai fermate neppure durante l’emergenza coronavirus. È quanto rivelato dall’inchiesta Lockdown condotta dai militari del Nucleo operativo della compagnia carabinieri di Bari San Paolo dal settembre 2019 al maggio 2023 e che oggi ha portato all’arresto di 12 persone, accusate a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, spaccio e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione e tentata estorsione aggravate, porto e detenzione di armi da sparo clandestine e da guerra, ricettazione, lesioni personali aggravate, accensioni ed esplosioni pericolose, reati aggravati dal metodo e dalle finalità mafiose. L’indagine, coordinata della Direzione distrettuale antimafia di Bari, rappresenta un approfondimento dell’inchiesta Vortice – Maestrale e cristallizza le attività del clan Strisciuglio specializzato, riferiscono gli investigatori, nel traffico di stupefacenti e nelle estorsioni imposte ai cantieri pena l’interruzione dei lavori.



Traffici illeciti e richieste estorsive sono andate avanti nonostante il lockdown pandemico quando si sono svolti «summit di mafia sotto i portici dei complessi di edilizia popolare» nel rione San Paolo «roccaforte del clan – aggiungono gli investigatori – nel corso dei quali venivano prese le decisioni per compiere atti intimidatori, pestaggi e sparatorie» anche ai danni del gruppo rivale dei Vavalle. Come accaduto nel marzo 2020 quando furono esplosi colpi d’arma da fuoco contro la porta di un bar della zona, di un’auto e di una macelleria. La gestione del traffico di droga era possibile, secondo l’accusa, grazie alle “cupe” ovvero locali difficili da trovare e spesso riconducibili a insospettabili, in cui sono stati rinvenuti «ingenti quantitativi di stupefacente, armi clandestine e da guerra, munizionamento e denaro contante», dicono gli inquirenti spiegando che «su alcune banconote sequestrate erano anche riportati a penna i nomi degli affiliati ai quali le stesse dovevano essere consegnate come sostentamento». I proventi delle attività illecite che confluivano in una cassa comune, sarebbero stati usati sia per l’acquisto di partite di droga da immettere nelle piazze di spaccio, sia per l’assistenza legale dei componenti del clan finiti in carcere. Infatti, «i vertici del gruppo criminale detenuti riuscivano non solo a comunicare con l’esterno grazie ai familiari, ma anche impartire disposizioni e a essere aggiornati usando cellulari detenuti illegalmente».
Il Corriere della Calabria è anche su Whatsapp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato