Giuditta Levato e gli “schiavi” nelle campagne italiane
Il 28 novembre del 1946 venne uccisa “la contadina di Calabricata”

Il 28 novembre del 1946 venne uccisa “la contadina di Calabricata“. E’ trascorso molto tempo, ma vale la pena occuparsene. Alla condizione che si inquadri l’accaduto nel suo effervescente contesto storico e lo si colleghi all’odierno sfruttamento dei migranti nelle campagne italiane.
Il colpo di fucile la raggiunse al ventre.
Il dipinto di Mike Arruzza, in una sala del Consiglio regionale della Calabria a lei intitolata nel 2005, con Giuditta Levato in testa agli schiamazzi e l’agrario e il campiere a fronteggiare quei “contadini facinorosi”, testimonia l’intensa emotività di quella giornata di 79 anni or sono.
Era una giovane donna di 31 anni, moglie di un reduce di guerra, due figli e incinta, che, senza paura del fucile e assieme a tanti zappaterra s’era recata sul fondo “del Biviere” a Calabricata (una frazione di Sellia marina) per difendere il diritto all’assegnazione dei terreni incolti scolpito nei “decreti Gullo”.
L’evento di Calabricata è parte dello straordinario decennio (‘43-‘53) che vide il movimento contadino scontrarsi con il latifondo per ottenere prima la legge Sila a novembre del ’49 e l’anno dopo la riforma agraria. Precede di un anno la prima strage di Stato a Portella della Ginestra (’47) e di tre (‘49) l’eccidio sul fondo Fragalà a Melissa.
Tuttavia pochi ricordano quegli eventi e quando accade prevalgono ricorrenze a suon di pistolotti agiografici. O che non aggiungono nulla alla tragedia di Giuditta che, se da un lato simboleggia la resistenza dei calabresi ai torti subiti nel secolo scorso, dall’altro rappresenta (insieme alle molte scorribande dei contadini nelle campagne del Sud al grido di “terra e giustizia”) la sconfitta di quel movimento che, secondo il sociologo americano Sidney Tarrow, ha dato vita “agli avvenimenti più rivoluzionari nella storia italiana del dopoguerra”.
A Giuditta Levato si possono intitolare strade, cinema, canzoni e docufilm. Ma un primo inizio, per stoppare le rievocazioni convenzionali, sarebbe il ripensamento della Chiesa calabrese, che alla “contadina di Calabricata”, morta fra atroci dolori nell’Ospedale di Catanzaro, negò, per via dei troppi fiori rossi sulla bara, l’estrema unzione.
Fu seppellita nel cimitero di Catanzaro e in seguito le sue ossa vennero deposte in una fossa comune, ma nonostante le reiterate commemorazioni, a circa otto decenni di distanza, non c’è neanche un luogo del cimitero dove portare un fiore a questa “martire del lavoro”.
E inoltre: che senso ha ricordare la fine violenta di Giuditta Levato, se oggi non la si connette con la disperazione delle braccianti invisibili e dei braccianti sfruttati come schiavi nelle campagne italiane?
Senza questa congiunzione si enfatizza l’aneddoto, ma non si dà l’idea dei sommovimenti che fecero da sfondo a quell’assassinio a sangue freddo. Né si segnala l’incapacità dell’Italia repubblicana di garantire i diritti di chi oggi lavora nelle campagne.
Soprassedendo anche sulla scandalosa sentenza della Corte d’Assisi di Catanzaro, che mandò assolti (per insufficienza di prove e per non avere commesso il fatto) nel ’48 l’agrario e il suo campiere, s’insiste soltanto sulla storiella di Giuditta Levato eroina, mamma e sposa esemplare che lottava per il lavoro. Sì, meglio che niente.
Ma è un “meglio” che tradisce un modo inappropriato di raccontare la storia di una bracciante incazzata di Calabricata: un villaggio “di case basse e affumicate” (come lo descrisse il senatore Pasquale Poerio), tormentato dalla povertà, senza una fontana e senza camposanto. E che, ancora oggi, a visitarlo, trattiene ogni traccia della marginalità sociale del Mezzogiorno.
Una contadina che, altro che madre esemplare e osservante dei precetti cattolici!, pretendeva la terra per campare e una società senza più baroni, conti e marchesi a spadroneggiare.
Le idee comuniste ne avevano fatto una capopopolo. E siccome l’agrario si ostinava a maledire quei contadini sopraggiunti sul terreno “del Biviere” per impedirgli di seminarlo al fine di bloccarne l’assegnazione (dimostrando che non era abbandonato) alla cooperativa “Uguaglianza e libertà”, in una giornata di novembre del 46 la “contadina di Calabricata” s’è buscata una fucilata nel ventre.
Se si vuol parlare di Giuditta e del movimento contadino meridionale che dilagò nelle campagne per abbattere il latifondo e poi fu tradito, sconfitto e costretto alla diaspora in tutti i cantieri del mondo, bisognerebbe parlare degli oltre 200mila braccianti agricoli, perlopiù extracomunitari, trattati come schiavi nelle 70 baraccopoli italiane dalla filiera agroalimentare internazionale e dalla grande distribuzione.
E della regia spietata che muove un’economia sommersa e illegale attraverso il sistema del caporalato con un giro d’affari di 73.5 miliardi di euro (Rapporto Agromafie e Caporalato-Osservatorio Placido Rizzoto Flai Cgil). Una regia che tiene assieme la tratta degli esseri umani, la fuga per carestia e guerre da paesi che l’Occidente ha spremuto, le mafie locali e il crimine internazionale.
Si pesta l’acqua nel mortaio, se non si mette a confronto quell’imponente flusso contadino che, per la prima volta, entrò da protagonista nella storia chiedendo lavoro, giustizia e libertà, all’attualità dell’esercito di lavoratori (di 155 nazionalità diverse) che, pur svolgendo un lavoro essenziale, subiscono paghe basse, ammassati nei campi, nelle stalle, nelle serre e nei ghetti del Belpaese.
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