Sparire per scelta: il confine invisibile tra libertà e paura
«L’allarme è nato nelle emozioni di chi non aveva notizie, non da un inganno»

Tatiana scompare per undici giorni senza avvisare nessuno. Nessuna costrizione, nessun pericolo, nessuna fuga rocambolesca: solo una scelta personale, tanto semplice quanto destabilizzante per chi resta. La sua assenza mette in moto un meccanismo collettivo potente, fatto di ansia, telefonate, ipotesi, soccorritori, un’angoscia crescente che occupa ogni spazio. E tuttavia, per la legge, nulla di tutto questo ha rilevanza penale. In Italia un adulto può allontanarsi volontariamente senza comunicare la propria intenzione. L’irreperibilità non è un reato e non lo diventa solo perché chi rimane teme il peggio. Il nostro codice penale è chiaro: l’unico comportamento punibile sarebbe simulare un reato, costruire indizi, inventare minacce o violenze inesistenti; oppure abbandonare minori o persone non autosufficienti, violando obblighi di cura. Tatiana non ha fatto nulla di tutto ciò. Neppure il procurato allarme può essere contestato, perché questo richiede un gesto attivo, un’azione che provochi intenzionalmente l’intervento dell’autorità. Lei invece ha scelto il silenzio. Un’assenza, non una messinscena. La preoccupazione degli altri, per quanto enorme, non è sufficiente a costituire reato: l’allarme è nato nelle emozioni di chi non aveva notizie, non da un inganno. Dal punto di vista psicologico, l’allontanamento volontario rappresenta spesso una risposta estrema a un sovraccarico che non trova altre vie d’uscita. Per alcuni è un gesto di autodifesa, un modo di respirare quando il mondo intorno diventa troppo rumoroso, troppo pieno di aspettative, troppo invadente. C’è chi fugge per evitare conflitti, chi per ritrovare un senso di sé, chi perché sente di avere perso ogni spazio personale. È un atto limite, ma non necessariamente patologico: piuttosto un tentativo, forse maldestro, di rimettere ordine dentro di sé. Inconfessabile eppure diffusissimo nella fantasia di molti, sebbene pochissimi trovino il coraggio di metterlo davvero in pratica. Eppure, quando Tatiana ricompare e sta bene, la storia cambia improvvisamente direzione. La tensione accumulata chiede un bersaglio. La paura si scioglie, ma lascia dietro di sé una scia di rabbia che cerca qualcuno su cui puntare il dito. E così l’amico che l’ha aiutata diventa prima il possibile assassino, poi un rapitore ed infine un complice.
È un movimento psicologico collettivo quasi automatico: la mancanza di un colpevole reale viene compensata con la costruzione di un responsabile simbolico. Se non c’è un crimine, lo si immagina. Se non c’è una minaccia, la si inventa. La sparizione volontaria è troppo semplice da accettare, quasi irritante nella sua mancanza di dramma. Una scomparsa senza reato scompagina l’idea che ogni azione debba essere spiegata, giustificata, condivisa. La nostra società tollera tutto, tranne l’assenza ingiustificata. Essere raggiungibili, rendere conto, rassicurare: questo è ciò che ci si aspetta da chi fa parte di una comunità, soprattutto da una persona giovane che crea pensieri a un genitore.
È come se la libertà radicale di allontanarsi incrinasse le sicurezze di chi resta. Così, l’assenza senza dramma diventa più inquietante del dramma stesso. È quasi più facile pensare a un rapimento che accettare l’idea che una ragazza abbia voluto prendersi undici giorni solo per sé stessa. Alla fine resta una comunità che fatica a comprendere la libertà quando appare in forme imprevedibili. Resta una ragazza che voleva soltanto respirare lontano da tutto e che ora si trova a gestire l’onda emotiva, i sospetti, i giudizi, i retropensieri. E resta l’immagine nitida e scomoda di una verità che nessuno ama ammettere: a volte la libertà degli altri ci spaventa più dell’idea che possano essere stati in pericolo.
*avvocata penalista e criminologa