REGGIO CALABRIA Escono dal carcere i due noti penalisti reggini Giulia Dieni e Giuseppe Putortì, arrestati nell’ambito dell’operazione Rifiuti spa 2 con la pesantissima accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il Tribunale della libertà ha infatti annullato l’ordinanza di custodia cautelare emessa a carico dei due avvocati, come pure per l’amministratore giudiziario Rosario Spinella, arrestato per associazione mafiosa.
«Un provvedimento conforme ai canoni di diritto e di giustizia – commentano con soddisfazione dal collegio difensivo – e che rispecchia fedelmente il contenuto degli atti d’indagine». «La situazione non poteva non aver questo epilogo – aggiungono i legali -, ma la enorme tensione mediatica che si era venuta a creare sulla vicenda, in ragione della notorietà dell’avvocato inquisito, aveva destato significative apprensioni, da parte di chi, diretti o indiretti interessati, era coinvolto nella questione. Tali da temere il consolidamento di quella che viene ritenuta una ingiustizia». In questo modo – ci tengono a sottolineare gli avvocati Morcella, Albanese, Aloisio e Poggio – «risultano almeno parzialmente contenuti i gravi danni di cui è stata vittima la penalista, alla quale il provvedimento del Tribunale del riesame ha certamente contribuito a ridare fiducia nel mondo in cui è vissuta da molti anni. Consolazione magra, sebbene non trascurabile».
Adesso, ci sarà da attendere per le motivazioni del provvedimento per comprendere in che misura e per quale ragione le accuse formulate a carico dei tre professionisti non abbia convinto il Tribunale, ma – allo stato – il collegio sembra aver accolto in pieno le considerazioni dei difensori del commercialista Rosario Spinella, difeso da Umberto Abate, dell’avvocato Dieni – assistita dai legali Giuseppe Aloisio e Manlio Morcella, coadiuvati dagli avvocati Michele Albanese e Bruno Poggio – e dell’avvocato Giuseppe Putortì, difeso dai legali Michele Priolo e Giacomo Iaria.
Non più tardi di ieri, i legali dei due penalisti avevano sottolineato che a mancare nella contestazione formulata a carico dei colleghi, oggi divenuti assistiti, sarebbero i gravi indizi di colpevolezza. «Quello che non si comprende – spiegavano infatti a margine dell’udienza in cui hanno esposto le proprie ragioni – è quale sia l’oggetto dell’imbasciata che Alampi avrebbe fatto trapelare da dietro le sbarre tramite gli avvocati». Ma soprattutto – evidenziavano dal collegio difensivo della Dieni – ci sarebbe una fondamentale discrepanza fra il capo d’imputazione contestato ai due legali e quello che pende sulla testa del boss Alampi, nel quale si specifica che quest’ultimo, «pur essendo detenuto, riusciva a coordinare l’attività del sodalizio, comunicando le disposizioni ai familiari che si recavano periodicamente al colloquio». Dei due avvocati – sottolineano dal collegio difensivo della Dieni – la stessa Procura in quella sede non avrebbe fatto menzione. Tutti rilievi contenuti in due corpose memorie difensive.
Per la Procura, quando insieme difendevano Matteo Alampi, gli avvocati Dieni e Putortì si sarebbero messi a disposizione come fondamentali “postini” dei messaggi del boss, che tramite i due legali non solo non avrebbe mai perso il legame con i sodali rimasti fuori dal carcere, ma nel giro di poco tempo avrebbe anche riacquisito il controllo e la gestione delle imprese confiscate. «Tale dato – si legge nell’ordinanza – emerge inequivocabilmente non solo dalle conversazioni tra i destinatari dei messaggi, che spesso avevano fatto riferimento proprio ai legali, nel loro compito di efficienti latori di messaggi, ma trova conferma nelle visite – altrimenti non giustificate – dei due presso l’ufficio dell’ing. Mamone». Per i pm Sara Ombra e Giuseppe Lombardo, che hanno firmato l’inchiesta, sarebbero stati dunque proprio i due noti penalisti a svolgere l’imprescindibile compito di «veicolare le informazioni da e per il carcere», come dimostrerebbero le innumerevoli conversazioni in cui familiari e presunti sodali del clan, come Lauro Mamone, associano una telefonata del legale a un messaggio proveniente dal boss.
Ancor più pesante la contestazione formulata dalla Procura e avallata dal gip a carico di Spinella. Per i magistrati, infatti, l’amministratore non solo avrebbe permesso agli Alampi di rientrare nella Edilprimavera – formalmente confiscata – attraverso personaggi di fiducia da loro scelti per ricoprire le nuove cariche societarie dopo il dissequestro del 50% dell’azienda, ma anche che «l’intento dell’amministratore Spinella, in assoluta coerenza con il progetto imprenditoriale di Alampi Matteo, fosse quello di “far fallire” la Edilprimavera, impresa ormai confiscata e di alcun interesse economico».
Alessia Candito
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