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La Dna: 'ndrangheta simile a una holding

REGGIO CALABRIA La novità è che non c’è nessuna novità: al pari degli anni precedenti, i magistrati della Procura nazionale antimafia non possono che sottolineare che a dispetto di arresti e proces…

Pubblicato il: 24/02/2015 – 15:10
La Dna: 'ndrangheta simile a una holding

REGGIO CALABRIA La novità è che non c’è nessuna novità: al pari degli anni precedenti, i magistrati della Procura nazionale antimafia non possono che sottolineare che a dispetto di arresti e processi, il potere della ‘ndrangheta in Italia è stato poco o nulla intaccato. Al contrario, le indagini non hanno fatto che svelare il contagio delle ‘ndrine in territori fino ad ora ritenuti a torto indenni. È un bilancio amaro e preoccupante quello tracciato dalla procura nazionale antimafia e presentato oggi al Senato dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, alla presenza del presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi. Un bilancio che delle ‘ndrine evidenzia probabilmente l’aspetto ormai giudiziariamente affermato, ma forse socialmente non ancora pienamente valutato: azioni, tattiche e strategie della ‘ndrangheta in Italia e non solo, non rispondono ai desiderata dei singoli clan, ma alle linee guida di un’organizzazione che guidata da «una sorta di “consiglio di amministrazione della holding” che elegge il suo “Presidente”». Del resto – si legge nella relazione «era difficilmente ipotizzabile che ad amministrare centinaia di milioni di euro, a governare dinamiche economiche, lecite ed illecite, in decine di comparti diversi e che attraversano, non solo l ‘Italia, ma buona parte del pianeta (dall’Australia al Sud America, dall’Europa al Nord America passando per tutti i possibili paradisi fiscali ), potesse essere questione affidata allo spontaneismo anarcoide di gruppi criminali disseminati e slegati, di decine e decine di cosche e locali, sorta di piccole monadi auto-referenziale». È questo – spiegano dalla Dna – il significato di quella unitarietà della ‘ndrangheta affermata ormai come verità giudiziaria in diversi dibattimenti, che tuttavia non esclude, ma al contrario è il presupposto, delle diverse strategie di penetrazione delle varie ‘ndrine nelle zone in cui si radicano. Se dunque a Reggio Calabria si registra «la particolare capacità della ‘ndrangheta cittadina di inserirsi nella gestione delle cd società miste – pubblico/privato – attraverso cui vengono fomiti i principali servizi pubblici alla cittadinanza», tanto che «attraverso una serie concatenata di prestanomi, la ‘ndrangheta ha il controllo totale delle quote di spettanza del partner privato e, attraverso la sua capacità collusiva ed intimidatoria, riesce a condizionare la parte pubblica», Gioia Tauro rimane sotto il «controllo totalizzante» dei clan della Piana che «riescono a godere di ampi, continui, si direbbe inesauribili, appoggi interni” grazie ai quali il porto calabrese nella “vera porta d’ingresso” della cocaina in Italia. Un business che la ‘ndrangheta continua sostanzialmente a monopolizzare, ricavando imponenti flussi di guadagno reinvestiti soprattutto – segnalano dalla Dna – nel settore immobiliare. Ma parlare di ‘ndrangheta, da tempo ormai non vuol dire parlare solo di Sud e di Calabria. Non a caso, larga parte della relazione della commissione è dedicata alle attività delle ‘ndrine al Nord, divenuto ormai terra di mafia. O meglio di ‘ndrangheta, se si parla di Milano, dove le indagini «hanno confermato il predominio di organizzazioni criminali di origine calabrese nel territorio a discapito di altre compagini associative, come quella di origine siciliana». Clan che pur mantenendo storici e radicati rapporti con la casa madre, hanno progressivamente acquisito «un certo grado di indipendenza rispetto all’organizzazione di origine». Per i magistrati della Dna, gli uomini dei clan lombardi «dimorando al nord ormai da più generazioni, hanno progressivamente acquisito una piena conoscenza del territorio consolidando rapporti con le comunità locali e privilegiando contatti con rappresentanti della politica e delle istituzioni locali». Ma a indicare l’ormai radicata presenza delle ‘ndrine calabresi in Lombardia, non sono solo gli episodi di infiltrazione economica o contaminazione delle istituzioni locali documentati dalle indagini, ma anche la dilagante omertà che ha coperto le innumerevoli intimidazioni registrate. «I commercianti, gli imprenditori in questi casi preferiscono assicurarsi, sopportare i costi dell’illegalità subita, piuttosto che rivolgersi alle istituzioni dello Stato con una denuncia, considerata foriera di guai peggiori». Non diversa è la situazione in Piemonte, come affermato dalle sentenze di primo e secondo grado relative all’operazione Minotauro, come da quelle che ne rappresentano la naturale prosecuzione. Al contrario, anche l’unica sentenza di segno negativo sulla presenza delle ‘ndrine in Piemonte, scaturita all’esito del giudizio di primo grado abbreviato del procedimento Albachiara, è stata completamente ribaltata dal giudizio d’appello celebrato dinanzi alla Corte d’appello di Torino, che ha condannato la maggior parte degli imputati anche associazione mafiosa. Storica è sicuramente la pronuncia de Tribunale di Genova all’esito del procedimento “La svolta”, che per la prima volta ha confermato la presenza nella zona di alcune “locali” di ‘ndrangheta, confermando quanto affermato da diversi pentiti, che in pubblica udienza hanno riferito della capacità dei clan liguri «di condizionare l’operato di alcuni amministratori locali e di incidere sulle attività imprenditoriali segnatamente svolte da quelle piccole o medie imprese clic costituiscono il tessuto economico prevalente dell’intera area». Ma per i magistrati della Dna, anche Bologna si conferma «terra di mafia», dove l’infezione delle ‘ndrine ha toccato «apparati politici, economici ed istituzionali». A radicarsi tuttavia in una regione che fino a qualche tempo si credeva indenne al radicamento mafioso, non sono stati i clan da tempo presenti in altre regioni del Nord. «In Emilia – si legge nella relazione – la ‘ndrangheta parla l’accento della zona di Crotone che si fonde con quello locale, ed è specificamente riferibile, almeno per quanto è stato accertato attraverso la citata indagine, al potente sodalizio mafioso di Cutro facente capo a Grande Aracri Nicolino. E l’influenza dì questo sì estende anche ad altri territori della limitrofa Lombardia (sostanzialmente corrispondenti all’area dì competenza del Distretto di Brescia) e del Veneto, in cui sintomaticamente non si riscontra la massiccia presenza dì quella che è stata defmìta la ‘ndrangheta unitaria dì matrice reggina».

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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