ROMA Non avevano intenzione di «arrecare un ingiusto danno ai titolari, certi o incerti, di utenze cellulari», perché Luigi De Magistris, «pm certamente di grande zelo e ambizione, assai solerte nell’imbastire indagini di rilievo nazionale» e Gioacchino Genchi, «esperto informatico», erano animati da «un reciproco interesse»: «fare indagini “alla grande”» il primo e l’altro, oltre che di svolgere la consulenza ricevuta, certamente anche quello di “implementare” gli elementi di conoscenza acquisiti in anni di consulenze informatiche». È uno dei passaggi contenuti nelle oltre 100 pagine di motivazioni che hanno spinto la terza sezione penale della corte d’appello di Roma ad assolvere, il 21 ottobre scorso, dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio l’attuale sindaco di Napoli e il consulente tecnico condannati in primo grado a un anno e tre mesi di reclusione per aver acquisito nel 2006 in modo illecito – secondo l’originaria impostazione accusatoria – le utenze legate ai parlamentari Pisanu, Gozi, Prodi, Mastella, Gentile, Minniti, Rutelli e Pittelli nell’ambito dell’indagine calabrese denominata “Why not”.
Fermo restando che «la creazione di una privata banca dati personali può configurare l’abuso d’ufficio e il trattamento illecito dei dati stessi», certamente, ha osservato la corte, De Magistris e Genchi avrebbero dovuto interpellare, per la necessaria autorizzazione a procedere, le Camere di appartenenza dei vari parlamentari chiamati in causa. Tuttavia «non c’è prova» che i due imputati fossero consapevoli che tra le 167 utenze da “decifrare”, ricavate dalla rubrica dell’imprenditore Antonio Saladino, ci fossero anche quelle riconducibili a personaggi politici. E «non c’è neanche prova» che avessero l’intenzione dolosa di procurarsi un vantaggio patrimoniale o di causare un danno ingiusto alle stesse persone alle quali erano riferibili quelle utenze. «Certamente l’intestazione “Camera dei deputati” o “Dipartimento amministrazione della giustizia” avrebbe dovuto portare ad una maggiore cautela e a un più attentato controllo degli effettivi utilizzatori delle utenze – è scritto nelle motivazioni della sentenza – ma è anche vero che i contratti telefonici accesi sotto queste denominazioni non identificano univocamente gli utilizzatori quali parlamentari in carica, risultando pacifico agli atti del procedimento che tale indicazione riguardava anche utenze in uso ad alcuni dei segretari, autisti o anche familiari dei parlamentari».
Per la corte, insomma, «non è stato dimostrato che De Magistris e Genchi avessero perseguito come obiettivo primario del loro operato quello della causazione del danno ulteriore alla pubblicizzazione dei dati di traffico telefonico dei parlamentari risultati investiti dalle indagini, accompagnando detta intenzionalità con il perseguimento del concorrente (ma subordinato) interesse pubblico allo stesso svolgimento delle indagini».
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