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"Ultima spiaggia", chieste cinquanta condanne

REGGIO CALABRIA Tre assoluzioni e pene variabili da uno a venti anni di reclusione per i cinquantatré imputati: sono richieste articolate quelle sottoposte al gup Filippo Aragona dai pm Antonella C…

Pubblicato il: 12/04/2016 – 17:31
"Ultima spiaggia", chieste cinquanta condanne

REGGIO CALABRIA Tre assoluzioni e pene variabili da uno a venti anni di reclusione per i cinquantatré imputati: sono richieste articolate quelle sottoposte al gup Filippo Aragona dai pm Antonella Crisafulli e Antonio De Bernardo al termine del procedimento abbreviato “Ultima spiaggia”, scaturito dall’inchiesta che ha gettato luce sull’asfissiante controllo del clan Paviglianiti sui Comuni di Bagaladi e San Lorenzo, sulla fascia jonica di Reggio Calabria, dove controllavano tutto, dagli stabilimenti balneari alla burocrazia della pubblica amministrazione, dal traffico di droga agli appalti pubblici, dalla microcriminalità agli esercizi commerciali. Una piccola roccaforte che il clan ha saputo difendere anche dagli appetiti dei potentissimi vicini, i Iamonte, anche grazie alla “protezione” chiesta e ottenuta ai Tegano di Reggio Calabria – con cui i Paviglianiti.

LE RICHIESTE La pena più alta, 20 anni, è stata chiesta per Luca Bruno Cannizzaro, Angelo Paviglianiti, Settimo Paviglianiti, Angelo Falco, Domenico Favasuli (cl.75), Giovanni Iacopino e Carmelo Pangallo. Diciotto anni sono stati chiesti invece per Giovanni Gattuso, mentre è di 16 anni di carcere la pena chiesta per Lorenzo Marino, Mario Nucera e Natale Paviglianiti. Per Salvatore Scuderi la pubblica accusa ha chiesto quindici anni e quattro mesi di reclusione, mentre arriva una richiesta di condanna a 14 anni di carcere per Abderrazzak Zamame, Rocco Giovanni Maesano, Antonino Pannuti, Bruno Russo, Antonio Russo e Saverio Paviglianiti. È invece di 12 anni di carcere la pena invocata per Carmelo Borrello, Antonio Cannizzaro, Giovanna Cannizzaro, Carmelo Iacopino, Francesco Leone, Andrea Domenico Russo, Ettore Eugenio Buonocuore e Giovanni Spartico. Undici anni e 4 mesi sono stati chiesti per Oualid Hallal e Antonino Maesano, mentre i pm hanno chiesto di punire Leandro Romeo con 10 anni e 8 mesi. Per la pubblica accusa dovrebbero tutti scontare 10 anni di reclusione Pasquale Paolo Minutolo, Antonio Bruno Esposito, Bruno Gattuso, Giuseppe Scalia, Vincenzo Abenavoli, Davide Iacopino, Giuseppe Liuzzo, Giuseppe Maesano (più 8mila euro di multa e Maurizio Bruciafreddo. Per Demetrio Romeo e Antonino Giordano i pm hanno chiesto al gup una condanna a 9 anni e 4 mesi, mentre è di 8 anni e 8 mesi di carcere la pena chiesta per Paolo Minutolo. Otto anni di detenzione sono stati invocati per Antonino Gattuso e Leo Morabito, mentre è di 6 anni la richiesta di pena per Giuseppe Mangiola, Giuseppe Muscianisi, Giovanna Paviglianiti, Sonia Paviglianiti, Carmela Scaramozzino e Giovanna Gioconda Spizzica. Infine sono stati chiesti 4 anni e 60mila euro di multa per Giuseppe Gligora e 1 anno per il collaboratore Giuseppe Ambrogio. Al gup la pubblica accusa ha chiesto anche che vengano assolti da tutte le accuse Adriano Ferrara Valentino, Domenico Favasuli, classe 1990, e Bruno Staiti.

L’INCHIESTA Prosecuzione naturale delle indagini Ada e Sipario, che hanno squarciato il velo sull’impero del clan Iamonte a Melito Porto Salvo, l’indagine è nata anche grazie alle rivelazioni del pentito Giuseppe Ambrogio, affiliato agli Iamonte arrestato nell’ambito dell’operazione Ada, ma in grado di parlare con cognizione e precisione anche dell’organigramma, degli interessi e delle attività dei Paviglianiti, cui è legato da lontani legami di parentela – il cugino della madre, Consolato Malaspina, è cognato di Vincenzo Paviglianiti – ma anche per aver sposato la nipote di Lorenzo Marino, elemento di vertice del clan. Proprio in ragione di questi legami, che al pentito hanno aperto le porte della vita intima della consorteria, Ambrogio è stato in grado di indicare con precisione anche la struttura interna della cosca che domina San Lorenzo e Bagaladi, le cui redini sono saldamente in mano a Domenico Paviglianiti, sostituito negli anni di detenzione dai fratelli Angelo e Settimo, ugualmente dotati – dicono gli investigatori – di poteri direttivi e di gestione dei traffici illeciti. Ed sarebbero stati loro – ha svelato il pentito, confermando le indagini in corso – a fare da registi alla galassia di interessi del clan che vanno dalle estorsioni necessarie per assicurarsi il controllo del territorio al controllo degli appalti pubblici, di norma affidati a ditte compiacenti riconducibili alla cosca, dagli stupefacenti, agli esercizi commerciali, in cui gli introiti dei traffici vengono reinvestiti e che il clan pretende far operare in assenza di concorrenza.

COSCHE BALNEARI È quanto sarebbe successo ad esempio con il Lido La Cubana, formalmente di proprietà di Luca Bruno Cannizzaro, ma in realtà riconducibile al cognato, Settimo Paviglianiti. Fin dalla sua nascita. La Cubana ha fatto terra bruciata dei concorrenti attorno a sé. Ma non con tariffe convenienti o servizi migliori, ma con una serie di atti intimidatori e danneggiamenti che colpiscono scientificamente gli altri operatori turistici.

MANI SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Ma negli anni, il clan sarebbe stato anche – se non soprattutto – in grado di incistarsi nella pubblica amministrazione grazie a uomini di fiducia come il responsabile dell’area tecnica di San Lorenzo, Marco Antonio Sergi, e quello dell’area amministrativa finanziaria, Rocco Giovanni Maesano, che avrebbero permesso ai Paviglianiti di aggirare normative, vincoli ambientali e paesaggistici, come di stravolgere le regolari procedure di assegnazione dei lavori pubblici diventati quindi appannaggio di una ristretta cerchia di imprenditori affiliati o contigui alla cosca, come Antonio Russo, genero di Angelo Paviglianiti, e Carmelo Iacopino.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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