di Francesco Donnici
ISOLA CAPO RIZZUTO La provincia di Crotone è separata dalla Piana di Sibari da poco meno di 150 chilometri di statale 106, nota ai più come “la strada della morte”. Chiunque dovesse percorrere quel tratto, si imbatterà quasi certamente in un viavai di biciclette e persone ai bordi della carreggiata. Il più delle volte di sera, con un’illuminazione approssimativa che in alcuni tratti non permette di distinguere facilmente soggetti in movimento.
I braccianti agricoli, soprattutto migranti, sono soliti spostarsi da una provincia all’altra a seconda del periodo. E se la Piana di Sibari, al pari di quella di Gioia Tauro, è famosa soprattutto per i suoi agrumeti, il Crotonese eccelle per le coltivazioni di finocchio, la cui raccolta parte proprio nel mese di ottobre.
Che sia da una provincia all’altra oppure da un accampamento di fortuna alle campagne, chi percorre quei tratti in bicicletta è paradossalmente un privilegiato perché può permettersi un mezzo proprio. Chi non può farlo, si affida a “traghettatori” che alle prime luci dell’alba arrivano per caricare i loro furgoncini stipandovi dentro decine di persone.
Regolari o irregolari che siano, devono lavorare. Per farlo devono sottomettersi spesso a queste condizioni. In Calabria forse più che in altre regioni d’Italia, il problema dello sfruttamento lavorativo dei braccianti agricoli viaggia di pari passo con le carenze infrastrutturali e con l’emergenza abitativa.
«NELLA “DISCARICA” DEI DIRITTI» Accade così che in molti si trovino a dover rinunciare a un posto sicuro e un tetto sotto cui dormire perché costretti in qualche modo a scegliere tra un alloggio e la necessità di lavorare. L’ultimo episodio della storia è quello che proviene dalla provincia di Crotone e finisce sulle pagine del quotidiano Avvenire in un reportage che racconta di come decine di immigrati (in gran parte originari dell’Africa subsahariana, ma anche bengalesi), residenti del Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara) Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, ogni sera escano per percorrere la statale ed accamparsi in alcuni capannoni abbandonati lì in zona.
Strutture che avrebbero dovuto ospitare il “consorzio del legno”, con la promessa di centinaia di posti di lavoro evaporata poi tra i carteggi delle procure. Risale infatti al 2006 l’inchiesta “Wood Line”, che coinvolse, tra i vari, un dirigente del Comune di Isola accusato di turbata liberà degli incanti e associazione a delinquere di stampo mafioso per il suo diretto coinvolgimento nel potente clan Arena – egemone nella zona – oltre all’allora parroco della Chiesa Santa Chiara di Crotone, che nello specifico – secondo quanto ricostruito dagli inquirenti al tempo – si era impegnato per far avere a due società coinvolte nel progetto la certificazione antimafia, che era stata loro negata.
I capannoni vennero così sequestrati e negli anni sono rimasti vuoti e inutilizzati, almeno fino all’arrivo dei migranti.
Appena arriva la sera, le strade del Crotonese si affollano di interminabili processioni che dal Cara arrivano fino a questi ruderi. Il perché – come ricostruito da Avvenire – lo si capisce all’alba, quando i ragazzi escono dei capannoni per raggiungere Piazza Berlinguer dove ad attenderli ci sono i furgoni o i mezzi che li condurranno nei campi. Dal centro di accoglienza non è permesso uscire alle prime luci del giorno e per questo si è instaurata la malsana prassi – tollerata e consentita dalle regole – di uscire la sera per passare la notte fuori e poter così essere “arruolati” al mattino.
IL CARA DI ISOLA E L’OPERAZIONE “JONNY” Quando parliamo della struttura recettiva di Isola Capo Rizzuto, non parliamo di un qualunque centro d’accoglienza.
«Il 2 giugno 1999, diventa operativo il Centro di Accoglienza di S.Anna. Un punto di riferimento nel Meridione che in 16 anni ha subito notevoli trasformazioni dal punto di vista della normativa giuridica e nella struttura stessa: dall’accoglienza nelle roulotte, si è passati ai container e alle palazzine in cemento, fino ai nuovissimi moduli abitativi prefabbricati. Dal 22 novembre 2012 la Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia, si è aggiudicata la gestione, per i successivi 3 anni, durante i quali le Misericordie si contraddistinguono ispirandosi al principio di aumentare sempre maggiormente la qualità dei servizi offerti». Questo è l’incipit di presentazione del Centro che ancora oggi è possibile reperire sul portale della Misericordia di Isola Capo Rizzuto.
Il sito è aggiornato al 2017 ed è la perfetta rappresentazione di quanto è stato tradotto nelle parole utilizzate quello stesso anno dal gip di Catanzaro, chiamato a convalidare gli atti dell’inchiesta “Jonny” della Dda di Catanzaro: «La cosca Arena ha, quantomeno dal 2006, accentrato nelle proprie mani la gestione delle ingenti risorse pubbliche, si parla di decine di milioni di euro, erogate dallo Stato per l’assistenza ai migrati ricoverati, dopo gli sbarchi, nelle varie strutture del centro di accoglienza Sant’Anna, uno dei più grandi ed importanti di Europa». Tale obiettivo si è realizzato, afferma il gip, «per effetto di una vera e propria “proposta di affari” che la consorteria ha ricevuto da un insospettabile personaggio, don Edoardo Scordio, parroco della Chiesa Maria Assunta di Isola Capo Rizzuto e fondatore dell’associazione di volontariato Misericordia di Isola di Capo Rizzuto».
L’inchiesta ha fatto emergere, tra le varie, la penetrazione della ‘ndrina Arena nel sistema dell’accoglienza e nelle forniture dei servizi inerenti l’assistenza ai migranti affidati alla gestione appunto della Misericordia, acquisendo il controllo dei subappalti per il tramite di imprese gestite da intranei o ad essa riconducibili. Un quadro accusatorio chiaro e definito, con nomi, cognomi e conseguenti condanne. Il giudice del rito abbreviato di primo grado ha applicato agli imputati pene per un totale di 640 anni, del quali, 14 anni e 6 mesi, proprio allo stesso don Scordio.
In seguito – e ancora oggi – il Cara, che a pieno regime arriva ad ospitare anche oltre 1.200 unità, è passato in gestione alla Croce Rossa Italiana e sempre più è divenuto un compartimento stagno rispetto al mondo esterno o addirittura un “contenitore” dove allocare i tanti richiedenti asilo spostati dai centri di accoglienza (calabresi e non) chiusi in questi anni o come è stato durante l’emergenza Covid in corso, dopo le proteste dei residenti di Amantea.
SILENZI DI STATO La realtà, scandita tra inchieste antimafia e reliquie di umanità, restituisce una storia di promesse tradite.
Tradita è stata la promessa di posti di lavoro per centinaia di calabresi col tempo finiti chissà dove. Tradita è stata la promessa per quanti avevano imboccato la rotta mediterranea nella speranza di trovare un’Italia accogliente, ma si sono ritrovati a lavorare nei campi per 20 euro al giorno con l’aggravante di sentirsi indesiderati. Sullo sfondo la regia unica della ‘ndrangheta, che ci consegna storie di sfruttamento e ruderi sequestrati.
Lo Stato, nel tempo, non è intervenuto sui territori limitandosi a soluzioni tampone o svolte repressive che hanno solo aggravato la condizione di alcune zone. Così come i decreti sicurezza – recentemente modificati ma non aboliti – anche le “regolarizzazioni a tempo” volute dal Ministro Teresa Bellanova hanno tentato di aggirare il problema senza affrontarlo.
Secondo il report finale del Ministero dell’Interno, nella provincia di Crotone le istanze presentate ai fini dell’emersione di rapporti di lavoro subordinato irregolare sono state solo 109 (non tutte riferibili a braccianti agricoli). Un dato irrisorio se si considera il numero di braccianti presenti nella zona, già solo nel Cara. Una tendenza che ha rispecchiato in parte quella delle province di Cosenza (962 istanze) e Reggio Calabria (214).
Dall’altro lato, la Regione ha cercato di intervenire sull’emergenza abitativa e il problema dei trasporti, ad oggi, solo col richiamato Progetto Su.Pr.Eme.
«Ancora una volta il problema del lavoro nero e del “caporalato” è stato affrontato in maniera settoriale senza ricorrere a interventi d riforma organici», avevano detto al tempo le associazioni e i sindacati attivi sulle tre province, come “Mediterranean Hope”, che già da prima della pubblicazione del bando ne aveva pronosticato gli esigui e addirittura rischiosi risultati: «Come si può pensare di istituire un servizio navetta di utilizzo esclusivo per i braccianti, senza considerare che questo potrebbe accentuare il malcontento sociale da parte dei cittadini nei loro confronti?»
La misura, inoltre, era stata pensata esclusivamente per gli insediamenti informali della Sibaritide e della Piana di Gioia Tauro, non considerando quindi le posizioni dei residenti, ad esempio, proprio nel Cara di Isola Capo Rizzuto o nella tendopoli di San Ferdinando. “Invisibili”, una volta in più. (redazione@corrierecal.it)
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