VIBO VALENTIA «Comunque i Piscopisani erano già dei predestinati che dovevano sparire o a livello giudiziario o a livello di essere uccisi a loro volta e questo progetto era ben noto a me e a Saverio Razionale che ci siamo parlati tante volte…». Una cosca a termine: così il pentito Andrea Mantella descrive il clan di Piscopisani nel brano di un interrogatorio riportato nella sentenza del processo Rimpiazzo. In un mondo o nell’altro – inquietante il passaggio sulla via giudiziaria per porre fine al clan emergente di Vibo Valentia – quel gruppo criminale sarebbe scomparso. Ed era, sempre secondo quanto dichiara Mantella, infiltrato da altre ‘ndrine per esercitare il controllo sulle sue mire espansionistiche. «Al fine di tenere sotto controllo i Piscopisani – riassume il presidente del collegio giudicante Tiziana Macrì – Saverio Razionale “gli infiltra” il nipote Gregorio Gasparro e il Mantella allo stesso fine “gli ho inoculato lo Scrugli” che era il braccio destro di Mantella fino a quando poi venne ucciso».
Il collaboratore di giustizia, centrale nella ricostruzione delle vicende criminali del Vibonese, ha raccontato per primo il risiko criminale di quella provincia e le sue alleanze variabili. È proprio Mantella, prima federato ai Lo Bianco-Barba a distaccarsi per costituire «un corpo rivale ai Mancuso di Limbadi». Allo strappo segue «la fusione con i clan dei Bonavota, i Piscopisani, gli Emanuele, i Tripodi e la costituzione di un gruppo funzionale al contenimento del potere dei Mancuso, colosso della ‘ndrangheta con i Fiarè, i Gasparro, Razionale». In questa alleanza criminale, tutti si marcano. Mantella, in particolare, osserva da vicino i Piscopisani, con i quali «faceva pranzi e cene», tutto «nel contesto di una complessiva strategia criminale volta al controllo» degli alleati-rivali.
Ci sono due fasi nella storia dei Piscopisani: nella prima, tra i capi «vi erano Giuseppe Galati alias u Ragioniere, Francesco D’Angelo alias Ciccio a Mmaculata, Domenico La Bella alias Mico u’ revolver, Pino Fiorillo, fratello di Nazzareno Fiorillo detto U Tartaro, e altri». Il nuovo sodalizio, invece, «venne sponsorizzato a San Luca affinché venisse riconosciuto da “mamma ‘ndrangheta” da Franco D’Onofrio (qui vi abbiamo parlato dei rapporti dei Piscopisani con l’ex militante di Prima Linea) e da Peppe Commisso u Mastru. I vertici originari non hanno però aderito al nuovo clan poiché erano legati da rapporti amicali e di interesse con i Mancuso di Limbadi». La nota a margine conferma le dichiarazioni iniziali di Mantella: «Si trattava di un sodalizio che non era ben visto da alcuno ed era predestinato a morire sul nascere».
Il pentito spiega meglio la decisione dei primi Piscopisani di non aderire alla “fase due” del clan: «Erano legati da vecchi rapporti amicali, erano nel business, nella vicenda mafia-petrolio (emersa nel contesto dell’indagine Petrolmafie, ndr), insomma, quella vicenda lì, con i Mancuso di Limbadi e con altre famiglie importanti della ‘ndrangheta, quindi non hanno aderito al nuovo locale di ‘ndrangheta, che onestamente non era ben visto da nessuno». I «volponi di una volta», così li definisce Mantella, «gli facevano credere che erano amici, compari, però c’era una strategia, una presa per i fondelli, ma il nuovo clan era predestinato che morisse sul nascere. Quindi io, tecnicamente, non lo so quanto sono stati fuori o in giro i cosiddetti Piscopisani del nuovo locale». Di sicuro «dovevano sparire o a livello giudiziario o a livello di essere uccisi». Mai fidarsi troppo degli “alleati” di ‘ndrangheta. (p.petrasso@corrierecal.it)
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