C’è modo di quantificare i cosiddetti «imboscati» nella sanità pubblica calabrese? È possibile scovarli? Servirebbe riutilizzarli per curare i malati? Esiste uno strumento per trovare il dipendente disperso, nascosto nella foresta della burocrazia sanitaria? Quest’ultima è una domanda, ispirata dalla nozione filosofica di «Lichtung», che il commissario e presidente Roberto Occhiuto si sarà fatto più volte, visto il suo riconosciuto senso pratico.
Un recente servizio del programma televisivo «Le Iene» ha riaperto la discussione sul tema dei sanitari che in Calabria non svolgerebbero più il lavoro per cui furono assunti. In pratica si tratta di unità di personale sanitario che, senza alcuna certificazione medica, sarebbero passate dai reparti ospedalieri a quelli territoriali, con compiti in prevalenza amministrativi. Parliamo soprattutto di medici delle aziende sanitarie provinciali, mentre il fenomeno, da quanto abbiamo potuto ricostruire, appare più circoscritto nelle Aziende ospedaliere. Vi sono poi gli operatori sanitari dichiarati inidonei allo svolgimento, in tutto o in parte, delle funzioni per le quali erano stati assunti e che, pertanto, sono utilizzati a scartamento ridotto o per le sole attività ambulatoriali.
In Calabria mancano 2.407 medici, secondo le stime della Regione, riportate dal Corriere della Calabria (leggi qui). È una carenza drammatica, su cui il commissario Occhiuto e i vertici delle nove aziende del Servizio sanitario regionale stanno lavorando con l’attivazione di procedure assunzionali e reclutamenti dalle graduatorie in vigore. Il dato, tuttavia, tocca l’opinione pubblica, specie davanti alle immagini mostrate nel citato servizio de «Le Iene»: di un medico coordinatore del 118 che gestirebbe un centro di formazione professionale; di un biologo che si occuperebbe di un piccolo trasporto pubblico; di un direttore sanitario che non avrebbe i titoli richiesti per l’incarico ricoperto.
«Per l’opera di “disboscamento”, ci vuole – afferma un dirigente sanitario che ci chiede l’anonimato – una grossissima volontà da parte della direzione aziendale. Soprattutto, serve un appoggio politico molto forte. In senso stretto, con il termine “imboscati” (o “imbucati”, come li chiama il commissario Occhiuto, nda), si intendono i dipendenti finiti ad altra mansione benché privi di certificazioni mediche. Ma occorrerebbero approfondimenti. Già alla commissione ministeriale Serra-Riccio, venuta in Calabria oltre 15 anni fa per indagare sulle cause della malasanità regionale, fu mandato l’elenco dei dipendenti che avevano limitazioni o godevano di altri benefici. Alludo a giudizi medici ufficiali, a premessi in base alla legge numero 104 del ’92 o per cariche elettive, a congedi parentali. Parlo di presupposti che limitano la presenza sul posto di lavoro o riducono la possibilità di utilizzo del personale, ad esempio per i turni della notte. A scanso di equivoci, evidenzio che le norme in questione sono poste a tutela dei lavoratori, ma si prestano a facili abusi». Sul punto, il nostro informatore è esplicito. «Se in un reparto – chiarisce – hai dieci medici, ma per le guardie puoi utilizzarne soltanto quattro, è chiaro che ne deriva un riflesso, anche pesante, sui livelli di tutela della salute. Ciò diventa un problema. Nell’ambito ospedaliero questo fenomeno è presente soprattutto nei reparti in cui l’attività lavorativa è più pesante, specie nell’area dell’emergenza».
Il primo giudizio spetta al medico competente; il secondo, invece tocca alla commissione di verifica, che è una sorta di organo di secondo grado cui può ricorrere sia il lavoratore che l’amministrazione. In genere, il medico competente è un dipendente aziendale, ma può anche essere un professionista convenzionato. Quasi sempre, le commissioni confermano il giudizio del medico competente, che è iscritto in un apposito albo.
La vigente disciplina sulla sicurezza nel lavoro, introdotta con il decreto legislativo numero 81 del 2008, in parte modificato dal decreto legislativo numero 106 del 2009, ha cambiato le procedure di accertamento. Nel merito, il nostro confidente avverte che «le norme attuali sono inadeguate, specie se si considera il rapporto di colleganza o frequentazione abituale che esiste all’interno della sanità». «Per limitare il fenomeno delle inidoneità facili, sarebbe utile – poi suggerisce – introdurre il divieto di svolgere attività professionale, sia intra moenia (all’interno delle strutture pubbliche, nda) che extra moenia (in uno studio privato, nda), anche con limitazioni in termini di carriera. Ancora, altra soluzione potrebbe essere stabilire per legge che gli accertamenti vengano effettuati da organi indipendenti, perché – spiega sempre il dirigente che ci ha chiesto l’anonimato – i sanitari interessati presentano il certificato di uno specialista di struttura pubblica, dunque il medico competente si arrende. Nello specifico, le visite dovrebbero essere affidate, insomma, a un medico esterno all’organizzazione dell’azienda pubblica in cui lavora il dipendente che lamenti patologie limitanti. I certificati medici dovrebbero provenire da strutture pubbliche individuate e certificate, cioè da centri in cui operino specialisti in Medicina del lavoro, che in Calabria mancano. Inoltre, i medici dichiarati inidonei continuano a percepire l’indennità di esclusività medica che, dopo alcuni anni, arriva intorno ai 1.500 euro mensili. Dal canto loro, i medici convenzionati continuano a percepire la loro paga oraria». Ma un conto è andare in ambulanza, altro è stare dietro ad una scrivania. «Anche in questo caso – conclude la nostra fonte – le norme contrattuali dovrebbero prevedere opportuni contemperamenti in relazione al minore disagio della prestazione lavorativa».
Davide Tavernise, capogruppo del Movimento 5 Stelle nel Consiglio regionale della Calabria, ha da poco presentato una proposta di legge con cui «si intende – è scritto nell’illustrazione – arginare la cronica mancanza di personale nelle Aziende sanitarie della Calabria» e «mettere fine alla cattiva prassi in base alla quale molti operatori sanitari, assunti nelle aziende con precise e determinate mansioni, vengono invece collocati negli uffici amministrativi, evitando di operare con la qualifica per la quale sono stati assunti, in corsia». I punti più importanti dell’articolato, che potrebbe avere elementi di conflitto con la normativa statale e, seppure involontariamente, sanare eventuali posizioni di fatto, sono: 1) l’acquisizione della qualifica, della retribuzione e del «profilo giuridico propri delle mansioni effettivamente svolte» dal lavoratore diversamente utilizzato negli ultimi dieci anni; 2) entro 60 giorni dall’approvazione della proposta legislativa, l’obbligo, per le aziende del Servizio sanitario regionale, di completare «la ricognizione delle situazioni di esercizio di fatto di mansioni difformi da quelle del profilo professionale di appartenenza» e di adibire gli interessati «allo svolgimento dei compiti propri del profilo professionale per il quale» erano «stati assunti»; 3) il divieto di collocare altrove il personale sanitario e la riassegnazione, per quello adibito ad altre mansioni da meno di dieci anni, «con priorità nei reparti di degenza e, in seguito, nei servizi sanitari ambulatoriali».
Secondo Ferdinando Laghi, medico e capogruppo di De Magistris Presidente nel Consiglio regionale della Calabria, «va fatta senz’altro una ricognizione del personale sanitario fuori posto, per cui ci sarebbe bisogno di tempi più lunghi di quelli previsti nella proposta del collega Tavernise». «Ogni azienda sanitaria – continua Laghi – dovrebbe fornire l’elenco dei propri dipendenti, precisando chi fa che cosa e soprattutto dove. Non è possibile arrivare ad una rapida soluzione con il riposizionamento, nei posti iniziali di appartenenza, di quel personale sanitario che dovesse non avere diritto all’esercizio di mansioni diverse. Ciò anche perché un sanitario, quindi un medico, un infermiere, un Oss, che da tempo non eserciti la professione potrebbe non dare le giuste garanzie assistenziali e un trasferimento lascerebbe scoperta la funzione esercitata sino a quel punto. Serve, invece, una valutazione caso per caso e, dove necessario, si dovrebbero modificare le mansioni del personale, attribuendo quelle ormai stabilmente svolte. Al riguardo va considerato che, quando un sanitario fa l’amministrativo, continua comunque a bloccare il turn over di quel posto per cui era stato assunto. Questi sono i due aspetti principali. La prima necessità, in tempi non sincopabili, è avere una ricognizione esatta del personale, nel senso di chi fa che cosa e dove. A me, più di una volta, l’ufficio Personale dell’Asp di Cosenza chiese, in qualità di primario della divisione di Medicina dell’ospedale di Castrovillari, l’elenco delle persone che lavoravano in reparto e le mansioni da loro svolte. L’anomalia è che quell’ufficio mi domandava di questioni di sua stretta competenza.
Domenico Sperlì, commissario dell’Asp di Crotone, esclude che nell’organico aziendale possano esserci degli «imboscati». «L’abbiamo verificato», assicura.
Dallo scorso giugno, Antonello Graziano, commissario dell’Asp di Cosenza, ha bloccato la possibilità di spostare i sanitari dalle loro sedi di assegnazione. «L’ho fatto – spiega – con una precisa disposizione, inserita nella lettera di incarico, volta ad evitare carenze di organico nei servizi. In sostanza, il personale sanitario è inamovibile e ogni provvedimento diverso è da intendersi nullo. Così, ho messo fine ad una prassi del passato, garantendo che i nuovi sanitari rimangano nei posti per i quali sono stati assunti. Ci siamo mossi ben prima dell’arrivo della tv nazionale. Peraltro, avevamo già verificato le diverse posizioni. Stiamo facendo grossi sforzi per le assunzioni, che finalmente sono arrivate grazie al commissario Occhiuto (leggi qui) e al nostro impegno quotidiano. Non possiamo permettere che ci siano abusi, soprattutto in questo momento difficile, che affrontiamo con dedizione, programmazione e spirito di squadra».
Corriere Suem ha proposto un altro approfondimento, ancora una volta su una questione molto sentita dai calabresi. Ci auguriamo che le informazioni fornite contribuiscano a indirizzare il dibattito politico sul piano della concretezza, anche in Parlamento.
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