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I clan sul nuovo complesso parrocchiale di Pizzo: il controllo dei lavori e le “pressioni” degli Anello

Nelle motivazioni della sentenza “Petrolmafie” le estorsioni “silenti” delle famiglie vibonesi e lo spazio chiesto dal figlio del boss Rocco Anello

Pubblicato il: 28/12/2022 – 7:00
di Giorgio Curcio
I clan sul nuovo complesso parrocchiale di Pizzo: il controllo dei lavori e le “pressioni” degli Anello

VIBO VALENTIA Gli affari legati agli idrocarburi, ma non solo. Punto cardine del processo nato dall’inchiesta “Petrolmafie” coordinata dalla Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, che in abbreviato ha già portato a 18 condanne e tre assoluzioni da parte del gup di Catanzaro Paola Ciriaco, è il reato di estorsione, contestato agli imputati Francescantonio Anello, condannato a 7 anni di reclusione; Giuseppe Barbieri, condannato a 6 anni; Pasquale Gallone, condannato a 6 anni e Daniele Prestanicola, condannato a 7 anni. Gli altri due imputati, Filippo Fiarè e Gregorio Giofrè, sono stati invece assolti.

I lavori per il complesso parrocchiale di Pizzo

Tra le vicende ricostruite dall’accusa e discusse nel corso del processo celebrato con rito abbreviato e finite nelle oltre 500 pagine delle motivazioni, c’è la costruzione del complesso parrocchiale di Pizzo “Risurrezione di Gesù”. Un progetto commissionato dalla Diocesi Mileto-Nicotera-Tropea, per un importo complessivo di 4.579.654,22 di euro. L’impresa appaltatrice era la Cooper Po.Ro Edile, società cooperativa di Rombiolo, nel Vibonese, mentre il direttore di cantiere era il geometra Mario Stefano Pata, da anni dipendente della cooperativa. Tutti gli imputati, poi condannati, avevano stretto un accordo collusivo – scrive il giudice nelle motivazioni – che mirava «alla imposizione esterna della scelta delle ditte destinate ad eseguire di fatto i lavori e servizi occorrenti, alla imposizione dei prezzi e delle condizioni di lavoro». E le intercettazioni hanno confermato la spartizione tra le consorterie dei lavori di costruzione del nuovo complesso parrocchiale di Pizzo, che hanno collaborato tra loro «nell’ottica di un controllo totale e condiviso del territorio, così fornendo uno spaccato allarmante della sottoposizione dell’appalto al predominio mafioso».

Le spartizioni dei lavori tra i clan

Il reato di estorsione riguarda in particolare l’imposizione delle ditte Prestanicola e Ruccella alla Cooper. Po. Ro. Edile, in particolare al geometra Paté dipendente da svariati anni e che ha intrattenuto rapporti diretti con i soggetti coinvolti nella vicenda. Come è emerso dal processo, infatti, Pata ha assecondato l’ingresso delle ditte nei lavori per la realizzazione della chiesa non «per la loro capacità tecnica – scrive il giudice nelle motivazioni – quanto per una forma di imposizione di Gallone (diretto interlocutore di Pata, a sua volta referente del clan diretto da Luigi Mancuso), alle cui pretese, per “quieto vivere”, non poteva obiettarsi. E Pata «non ha svolto alcun ruolo nella selezione delle ditte, ma ha subito anche danni economici derivanti dall’imposizione di prezzi maggiori». La sottomissione della “Cooper Po.Ro. Edile” «emerge peraltro – scrive il giudice – anche dal contegno tenuto dal duo Mancuso-Gallone che, dal primo momento, si sono posti quali domini del cantiere, dettando regole e scegliendo ditte, che Pata non poteva che limitarsi ad accettare».

L’estorsione “silente” dei clan

Ed è in questo contesto che emerge, per i giudici, il ruolo di Francescantonio Anello. Quello che è emerso, infatti, è uno scenario di «estorsione in forma “silente” praticata senza il ricorso ad esplicite forme di minaccia o a violenza» perché «i vari protagonisti, tutti legati o comunque contigui a consorterie mafiose storicamente radicate sul territorio, si limitavano infatti ad individuare le imprese a cui affidare i lavori dando per scontata l’accettazione da parte del committente». Un apparente quadro pacifico dietro al quale, però, si nascondono le più classiche logiche di spartizione e controllo del territorio radicante talmente tanto negli anni da aver contaminato la maggior parte dell’economia locale. «Ah Stefano, fai una cosa… senti a me… tu devi lavorare tranquillo? Prima di cominciare vai e tifai una rinfrescata per non sbagliare le ditte e sei a posto» dice D’Amico (imputato nel processo ordinario) rivolgendosi al direttore del cantiere. Per il giudice è poi significativa «la premura della vittima (in questo caso il direttore del cantiere) di non nominare mai direttamente gli indagati» utilizzando invece solo dei riferimenti ed espressioni allusive come “quelli di là sopra” per indicare Anello e Prestanicola oppure il “figlio” per riferirsi proprio al figlio del boss di Filadelfia, Rocco Anello.

Lo spazio chiesto da Anello e le pressioni sul cantiere

Secondo i giudici, inoltre, l’esistenza di un vero e proprio sistema di spartizione «dei lavori rispondente a logiche mafiose emerge del resto dalla viva voce degli esponenti intercettati». E in questo scenario la partecipazione attiva di Francescantonio Anello, insieme a Daniele Prestanicola, nel sistema di spartizione emerge inequivocabilmente dai contenuti delle intercettazioni dalle quali risulta, in estrema sintesi, che Prestanicola insieme ad Anello pretendeva di ritagliarsi «spazio e di partecipare alla spartizione dei lavori». Un comportamento che provocava malumori tra i vari soggetti legati alle consorterie mafiose al punto da rendere necessario l’intervento di Pasquale Gallone e addirittura del boss di Limbadi, Luigi Mancuso.  Come quando, ad esempio, in una conversazione D’Amico parla delle resistenze sul cantiere a causa delle visite fatte da Daniele Prestanicola in compagnia di Francescantonio Anello sul cantiere diretto dall’architetto Francescantonio Tedesco, garante degli interessi criminali della cosca Anello-Fruci proprio nel controllo delle attività economiche nel settore edilizio. «Piano piano che è il figlio di Rocco» dice in una conversazione Pasquale Gallone mentre discute con Giuseppe D’Amico, discutendo proprio delle continue ingerenze con il figlio del boss Anello. Antonio D’Amico spiega poi che Francescantonio Anello era già stato rimproverato: «(…) te lo dico io il discorso, il discorso è questo lui lo sta facendo presente, e lui lo sa, lui è stato già cazziato… ma cazziato, cazziato, cazziato, cazziato». In un’altra conversazione i fratelli D’Amico discutono ancora sul comportamento di Francescantonio Anello: «(…) te ne vai con quel Tedesco tutti i giorni là, lo so che vai tutti i giorni là per pressarlo… o no?» «Io gliel’ho detto allo zio e disse “no lascialo stare” “No, vado e Io chiamo” gli ho detto, eh lasciamo stare ogni volta?».

La “rabbia” dei D’Amico

«Ma Francesco adesso si è svegliato? Non si poteva svegliare tre anni fa due anni fa?» dice poi Barbieri, una rabbia che derivava – secondo quanto scrive il giudice nelle motivazioni «dalla circostanza che le pretese di Francescantonio Anello si erano palesate solo in quegli ultimi mesi, quando invece gli interessi delle varie consorterie presenti sul territorio per il cantiere erano stati contemperati, in un momento precedente, con ampio anticipo». Che Francescantonio Anello avesse fatto ingresso nel cantiere di Pata per imporre la propria presenza è confermato dall’intercettazione della conversazione tra i fratelli D’Amico, finita nelle motivazioni della sentenza. Giuseppe D’Amico dice al fratello Antonio: «Compare Daniele dice che se la vedeva lui per lo sbancamento» «dice che se la vede lui, infatti, ha mandato il figlio di Rocco».  «Il direttore dei lavori ha chiamato Stefano e gli ha detto così e così (…) gli ha detto “non hai capito niente”» «Poi è andato là sotto e gli ha detto “lo sbancamento lo fa Pino e tutto quello che ti serve, parli con lui… tutto”».

Il benestare di Luigi Mancuso

Per il giudice «il tenore dei dialoghi rende evidente l’impronta della criminalità organizzata» e le logiche mafiose «che hanno influenzato la selezione delle imprese incaricate di effettuare i lavori sul cantiere». A questa spartizione ha preso parte anche la cosca Anello sponsorizzando in prima persona l’impresa di Prestanicola. Per il giudice «la conferma si ricava dalle stesse affermazioni di Pata che per primo ha ammesso di avere avuto un contatto con Prestanicola e con il figlio del boss di Filadelfia venuti a rivendicare precedenti “accordi”». Una circostanza che ha alterato gli equilibri per la spartizione dei lavori, così come si evince dallo «stato di fibrillazione generato tra i vari esponenti criminali, tra cui i D’Amico, Ruccella, Barbieri e Gallone» e culminato poi con l’intervento risolutivo di Luigi Mancuso “il Supremo”, massimo esponente della ‘ndrangheta vibonese il quale «non ha opposto alcun veto all’inserimento dell’impresa sponsorizzata da Francescantonio Anello nei lavori sul cantiere “per l’amicizia che c’è”». (g.curcio@corrierecal.it)

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