ROMA «Nel 98-99 qualche famiglia aveva avanzato la proposta di toccare (uccidere ndr) un magistrato, ma ci siamo opposti tutti. Lo ‘ndranghetista ha evitato sempre di mettersi contro lo Stato, poi le cose sono cambiate da quello che si legge. Ma la ‘ndrangheta diceva che non si deve mai toccare o andare contro lo Stato, semmai di conquistarlo, di corromperlo. La vecchia ‘ndrangheta era così». Lo ha raccontato il collaboratore di giustizia Paolo Iannò nel corso del processo “Propaggine” in corso a Roma, scaturito dall’operazione che ha fatto luce sugli interessi della ‘ndrangheta nella Capitale e che vede alla sbarra esponenti della cosca Alvaro. Iannò, affiliato al locale di Gallico, a Reggio Calabria, arrestato nel dicembre del 2000 e collaboratore di giustizia dal 2002, rispondendo alle domande del pubblico ministero Giovanni Musarò, ha raccontato delle dinamiche criminali intorno agli affari della ‘ndrangheta reggina, dalle usanze all’organizzazione, fino ai contrasti rappresentati dalla seconda guerra di mafia. «Le doti le ho avute per Domenico Alvaro e Francesco Alvaro, da loro sono stato preso in benevolenza, ero uno di famiglia, mi venivano a trovare quando ero latitante», ha spiegato Iannò riferendosi al clan di Sinopoli. «Quella degli Alvaro è una delle famiglie storiche della ‘ndrangheta, più potenti, conosciute e rispettate». «Domenico Alvaro – ha aggiunto – è stato colui che ha garantito la maxi pace per la cosca Condello, Imerti, Serraino. Dalla parte nostra lui ha fatto garante alla maxi pace assieme ai Nirta».
E ricollegandosi al ruolo degli Alvaro nell’ambito della pax mafiosa, il collaboratore di giustizia ha raccontato l’inizio di quella che fu una lunga scia di sangue iniziata con l’uccisione di Antonino Imerti, cugino di Pasquale Condello e durata fino ai primissimi anni ’90: «Pasquale Condello per me è stato come uno zio. Veniva da Archi e faceva parte del gruppo di Paolo De Stefano, dopo l’autobomba al cugino ci fu una frattura. La guerra di mafia iniziò nell’85 con la morte di Imerti, successivamente ci fu la risposta con la morte di Paolo De Stefano, boss di Reggio Calabria e oltre, che aveva vinto la prima guerra di mafia contro la famiglia Tripodi. Pasquale Condello era il suo braccio destro». Fu «Mico Alvaro a mettere una pietra sulla pace della guerra di mafia», «Per partecipare alla riunione interlocutoria in vista della maxi pace siamo stati nella parte alta di Sinopoli. Si parlava di fare la pace per le nostre donne e i nostri bambini che erano stanchi. La riunione definitiva – ha raccontato ancora Iannò – è avvenuta nelle campagne di Sinopoli».
Rispondendo alla domanda del pm Musarò, Iannò ha spiegato cosa intende quando parla di “figli di ‘ndrangheta” e “figli adottivi”: «Figli di ‘ndrangheta è quando uno è ‘ndranghetista di famiglia, ma è sempre una scelta, io ho un fratello che è rimasto fuori da quel mondo. Poi ci sono i ragazzi che si avvicinano pur non avendo nessuno che è ‘ndranghetista nella loro famiglia. Per usanza gli ‘ndranghetisti battezzavano i figli appena nati, picciotti li facevano picciotti o giovani d’onore».
E parlando del conferimento delle doti, Iannò ha spiegato: «La famiglia fa da scudo, quando c’è dietro il nome di una famiglia conosciuta è una grande garanzia, ma poi valgono i “meriti” dei soggetti”. Un mondo da cui non si può uscire, così come confermato da altri collaboratori prima di lui: “Uno può fare anche un passo indietro, rimanere in buon ordine, dormiente, e scegliere di fermarsi per motivi di salute o familiare, ma non si possono togliere le doti partendo dallo sgarro, lo sgarro solo con la morte si può togliere».
Con riferimento alle decisioni assunte dai clan, il pm ha chiesto al collaboratore di giustizia come si prendessero quelle che riguardavano la commissione di omicidi. E Iannò, riferendosi a un periodo in cui era latitante, ha spiegato: «Nel 98-99 qualche famiglia aveva avanzato la proposta di toccare (uccidere ndr) un magistrato, ma ci siamo opposti tutti». Come ricordato dal pm, il collaboratore di giustizia ne aveva parlato anche nel corso di una testimonianza nel 2013, con riferimento alle famiglie Zavettieri, Morabito e Paviglianiti. «Lo ‘ndranghetista – ha spiegato ancora Iannò – ha evitato sempre di mettersi contro lo Stato, poi le cose sono cambiate da quello che si legge. Ma la ‘ndrangheta diceva che non si deve mai toccare o andare contro lo Stato, semmai di conquistarlo, di corromperlo. La vecchia ‘ndrangheta era così».
Il collaboratore di giustizia ha inoltre spiegato come si formano i “locali” di ‘ndrangheta, per i quali serve l’autorizzazione dalla “mamma”, la Calabria: «La decisione definitiva spetta a tutti i locali, se non c’è nessuno in contrario si fa. Fu chiesto – ha rivelato il pentito – il permesso per formare un locale di ‘ndrangheta a Ventimiglia, in Liguria. Avevano chiesto il permesso e gli fu accordato». «Il locale di ‘ndrangheta – ha rimarcato – c’è in Australia, in America, da quello che mi accennavano i vecchi, i locali ’ndranghetisti sono sparsi in tutto il mondo. A differenza del mafioso e del camorrista, lo ‘ndranghetista ama formare il locale, avere il suo territorio. Lo ‘ndranghetista ama impadronirsi di un territorio, non pensa solo all’affare che può fare, ama dire: “qui ci sono io, comando io”». (m.ripolo@corrierecal.it)
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