COSENZA Gli ambulatori di pneumologia dell’ospedale dell’Annunziata sono in ristrutturazione e tuttavia il servizio è garantito. E questa è buona cosa. Eppure se un paziente, affetto da una patologia abbastanza rischiosa, deve prenotare i controlli prescritti da uno specialista, in servizio in quello stesso ambulatorio, deve prima pregare il suo santo protettore.
Varchi il cancello e ti ritrovi in mezzo al cantiere. Sono le 12 e 40 minuti. Occorre un po’ di tempo per capire dov’è la porta d’ingresso, soprattutto se si ha la sfortuna di non incontrare anima viva a cui poter chiedere un’informazione. Con la coda dell’occhio vedi una freccia di cartone instabile, con una scritta a pennarello sbiadita. Forse è l’indicazione giusta. Una volta trovata una porta, entri, sali quattro, cinque rampe di scale. Che affanno! All’ultimo piano c’è una donna in camice bianco che va avanti e indietro nervosamente. Intorno i pazienti, quasi tutti anziani. Sono tra l’attonito e il seccato, ma gentilmente ti sussurrano che per le prenotazioni bisogna chiedere a lei. Ed è così. «Deve aspettare!», dice abbastanza sgarbatamente; insomma risponde senza aspettare una domanda.
E va bene. E’ l’ora di pranzo, sarà stanca, non è una giovinetta. Spunta un’altra infermiera, chiedi come mai è da un mese che non risponde nessuno al telefono per prenotare gli esami, secondo prassi. L’arcano è svelato: «è cambiato il numero di telefono».
E va bene. Lavori in corso, confusione, stress.
L’impiegata in camice bianco torna, prende il plico di impegnative che la paziente ha in mano, utili a prenotare ben cinque test respiratori, ma non dà il tempo di chiedere informazioni basilari, e soprattutto lecite e dovute, sui tempi e le modalità. Ne afferra una, con modi abbastanza sgarbati, gli stessi di prima, e dice «questo esame non si può fare!». E allora vorresti capire: «Non è corretta l’impegnativa?». «E’ rotta la maccchiiiina!».
Viene da ridere, perché per il tono, per il timbro di voce squillante, in un piccolo corpo in ciabatte, per la sua risposta con tutte quelle “i”, chiunque, casualmente di passaggio, capirebbe che quella benedetta macchina l’ha rotta la paziente sgridata.
E va bene, magari qualche minuto ancora e si riesce a prenotare qualcosa e ad andare via da questo posto. Inizia a venirti in mente la Beirut post bombardamento. Pensi a come deve sentirsi un profugo del Sant’Anna di Crotone, se nel presidio ospedaliero della tua città ti puoi trovare in un lembo ambulatoriale fuori dal tempo e dai diritti di cittadinanza.
«Questo – la donna afferra un’altra impegnativa, come se fosse scadente carta igienica, – lo deve fare adesso!». «Cos’è?», chiedi ancora con un neurone calmo. «Il test del cammino». E senza aspettare il consenso se ne va. Ordina ai pazienti: «lei aspetti, no ho detto che deve andare là, lei mi segua, lei si sieda, no in quell’altra stanza ho detto!». Capire come devi muoverti sta diventando un problema.
Alla fine ti ritrovi in un corridoio, in mezzo a due operai che stanno prendendo le misure di una porta. C’è una sedia dove poggi le cose e la donna rispunta fuori, si rivolge agli operai: «Non si possono lasciare sedie qui, le ho dovuto levare, perché le usano i pazienti. Tutti si siedono». E lo dice come se fosse una cosa abbastanza strana… in un ospedale, in un ambulatorio di pneumologia.
L’atmosfera è agitata, finanche gli operai fanno un gesto amichevole, come a dire: «stiamo calmi». Un segnale di umanità. Finalmente!
Ma un nuovo malinteso è in agguato. Torna la voce ormai insopportabile: «Deve andare in quella stanza». Troppa confusione, troppa incertezza. Allora vai, perché per fare un test, abbastanza delicato, ci sarà bisogno di un ambulatorio, non di un corridoio. E invece no, non diceva a te. Altra sfuriata. Ma sarà proprio su quel linoleum azzurro tipico da percorso ospedaliero, dove si riesce a conquistare finanche una sedia, che verrà fatto un test che non conosci, di cui non sai nulla, perché nessuno ti ha spiegato come si fa? Boh! Troppa confusione.
Il neurone cede. «Mi dia i miei documenti, non sono in condizioni di fare test respiratori e non mi pare il luogo opportuno», sbotta la paziente. Ma la donna si oppone, dice che ha già prenotato il test e che se non si fa c’è una multa da pagare o che, in alternativa, bisogna aspettare un’ora per disdire. Un’ora? Multa?
Vai a prenotare esami di controllo e ti ritrovi in una commedia, amara molto amara, all’italiana. La donna non vuole saperne di restituire i documenti, continua ad opporsi. Il neurone non ce la fa proprio più. Li pretendi, sono tuoi. Intanto ne porta uno in un’altra stanza dove un’infermiera ti chiude la porta quasi in faccia. Sudi le sette camicie e sei costretta ad alzare la voce per farti restituire tutto.
Eppure un’ultima chance la vuoi dare. T’infili nella stanza dello specialista e chiedi se puoi disturbarlo e parlargli un attimo, in fondo è proprio lui che ha predisposto il tuo piano terapeutico e i controlli da fare, tra l’altro con professionalità e in modo scrupoloso. Il dottore con garbo chiede qual è il problema. «Cerchi di ricostruire il tutto e poi decidi di fare il domandone: «Dottore, posso continuare a curarmi in questo ambulatorio oppure vado altrove?». L’affanno intanto sta salendo alle stelle. Non fai in tempo a chiarirti con lo specialista, perché entra la donna, ti intima di uscire «qui dobbiamo lavorare! Alle due io devo smontare». Come se lo specialista a cui hai affidato la tua salute stesse perdendo tempo. Il dottore è in imbarazzo, la donna continua a dire cose senza senso. Meglio altrove.
I pazienti intorno sgranano gli occhi, scuotono la testa. Fratelli e sorelle.
Un senso di sconforto ti assale. Medici bravi, ma che probabilmente in questo momento non sono ben supportati. Arrivederci.
Ma torni sui tuoi passi, vuoi capire qual è il nome dell’infermiera, perché un reclamo in questi casi va fatto. Lei fa un cenno con il braccio come a scacciare una mosca fastidiosa, «non glielo dico, chieda in direzione generale». Siamo nel venti venticinque? Devi darti un pizzicotto? Come mai nel lasso di tempo di un’ora, o poco meno, ti vengono negati i diritti sanitari, tra l’altro con esenzione oncologica?
Un’ultimissima chance: «Almeno abbia l’umiltà di scusarsi, di ammettere di aver sbagliato». «E’ una giornata no», risponde e continua a scacciare la mosca fastidiosa.
Ti dirigi al poliambulatorio di Rende. Ti senti male, hai l’affanno, forse la pressione alta perché l’orecchio sinistro è tappato.
Un angelo allo sportello Cup ti ascolta, risolve con pazienza. Multa scampata, prenotazione involontaria disdetta, appuntamenti presi in un altro presidio ospedaliero. Ci saranno chilometri da fare e molti disagi, ma si spera che andrà meglio. Arrivederci signora Angela, perché è così che ti chiami. Il tuo cognome è scritto nel reclamo inviato all’Urp e alla Direzione generale.
E tutto questo è capitato davvero. Perché è successo a me.
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