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Ospedali montani, adesso quali passi si dovrebbero compiere?

Ha ragione il dg dell’Azienda Zero Miserendino quando al Corriere della Calabria afferma che serve la programmazione, mancata per troppi anni

Pubblicato il: 07/02/2025 – 6:21
di Emiliano Morrone
Ospedali montani, adesso quali passi si dovrebbero compiere?

Aperto ai sindacati e alle associazioni locali, stamani si tiene a San Giovanni in Fiore un Consiglio comunale sulla sanità. In particolare, si discute dell’argomento dopo la scomparsa di Serafino Congi, avvenuta il 4 gennaio 2025 durante il trasporto in un’ambulanza medicalizzata all’ospedale di Cosenza, partita dopo oltre due ore dalla diagnosi di infarto. Da allora è nato sul posto il comitato civico Si(la) Salute Bene Comune, cui hanno aderito varie formazioni sociali, che ha svolto iniziative molto partecipate sul potenziamento dell’emergenza-urgenza nel territorio e ricordato il caso del 48enne in occasione del trigesimo: il 4 febbraio scorso, sotto la Direzione generale dell’Asp di Cosenza. Non solo: i manifestanti sono stati poi ricevuti dal dg Antonello Graziano, che ha ripetuto quanto il 30 gennaio aveva detto al sindaco e ad alcuni consiglieri comunali di San Giovanni in Fiore. L’Azienda sanitaria si è attivata – ha significato Graziano – per fornire altri medici all’ospedale e al Territorio silani, come pure per garantire l’elisoccorso notturno appena possibile. Ieri pomeriggio, Si(la) Salute Bene Comune ha comunicato a mezzo stampa l’intenzione di non partecipare al Consiglio comunale odierno, perché, ha riferito, le proprie richieste di apertura del dibattito sono state respinte: che la seduta fosse posticipata al pomeriggio per consentire una maggiore partecipazione e che il tema della sanità diventasse «punto prioritario all’ordine del giorno». Lo stesso comitato ha lamentato che «vi erano già 16 associazioni prenotate che non erano presenti» alla riunione preliminare sullo svolgimento del Consiglio comunale, «delle quali» il presidente dell’assise, Giuseppe Simone Bitoneti, non avrebbe rivelato l’«identità per motivi di privacy».

manifestazione per serafino congi

Ancora prima, in un’assemblea pubblica, il comitato 18 Gennaio aveva domandato altri medici e mezzi più avanzati per la postazione del 118 e il Pronto soccorso di San Giovanni in Fiore. Inoltre, in un recente video su Facebook, il consigliere comunale Antonio Barile, già primo cittadino dello stesso Comune, ha rimproverato alla sindaca in carica, Rosaria Succurro, d’aver fornito un quadro rassicurante dei servizi sanitari ma lontano dalla realtà, perciò ne ha chiesto le dimissioni. Barile ha poi chiamato in causa il commissario alla Sanità calabrese, Roberto Occhiuto, e l’ha invitato a «rendersi conto, di persona, della situazione» dell’ospedale e dell’assistenza territoriale nella città silana. L’ha in pratica sfidato.

L’arrivo annunciato di sei specialisti

In carica dall’ottobre 2020, Succurro aveva annunciato, al termine della riunione del 30 gennaio scorso con i vertici dell’Asp di Cosenza, l’arrivo a San Giovanni in Fiore di sei specialisti ambulatoriali e, a parte, di quattro camici bianchi – compreso il primario – per il locale reparto di Medicina, in aggiunta alle due professioniste cubane che dall’agosto 2023 lavorano nello stesso presidio ospedaliero, ai due loro connazionali in servizio dai mesi successivi, a una chirurga di Crotone che lì opera, nel Multidisciplinare chirurgico, in regime di day hospital, dal 2022 e ad altri dottori reperiti – in virtù del suo interessamento, ha spesso precisato la sindaca – per i reparti ancora attivi e per gli ambulatori del Distretto sanitario.

Il dibattito continua

Da settimane il dibattito pubblico sulla sanità è fisso su taluni aspetti: le carenze di medici e dotazioni nell’emergenza-urgenza e di camici bianchi nella Continuità assistenziale (ex Guardia medica), che sono questioni reali. Intanto, la sindaca Succurro ha informato d’aver sottoscritto con l’Asp di Cosenza e con Elitaliana, la società che fornisce gli elicotteri alla regione Calabria, un protocollo d’intesa per l’atterraggio dell’elisoccorso notturno nello stadio comunale di San Giovanni in Fiore. Peraltro, si ventila l’arrivo di un cardiologo per l’ospedale cittadino, per quanto filtrato dall’Asp di Cosenza, ma la notizia non è affatto confermata. Il cardiologo territoriale è al momento in aspettativa e negli ultimi anni ha dovuto fronteggiare situazioni critiche, anche con strumenti datati e un inspiegabile isolamento professionale. Tra i nomi che a Roma circolano per la nomina del nuovo direttore generale dell’Agenas, c’è Gianfranco Nicoletti, rettore dell’Università della Campania e originario di San Giovanni in Fiore. Se fosse incaricato, sarebbe un bene per due motivi: per l’attaccamento dell’accademico alle proprie radici e per concentrare l’attenzione sul tema principale, cioè la riforma della rete regionale dell’assistenza ospedaliera, il vero nodo ancora nell’ombra. Che, poi, non è un problema comunale ma riguarda la programmazione sanitaria della Calabria, sottoposta a Piano di rientro e coadiuvata dall’Agenas anche per il disegno delle reti assistenziali. Qual è il punto di fondo? L’ospedale di San Giovanni in Fiore è ridotto ai minimi termini da circa 15 anni, come gli altri ospedali montani della Calabria. Andrebbe dunque riconfigurato, sul presupposto che le relative dotazioni sono insufficienti a garantire risposte efficaci ai bisogni di salute della popolazione e che, finora, è stato tenuto aperto con soluzioni temporanee a fronte di oggettive carenze di personale; via via coperte, per quanto possibile, con nuovi medici, inclusi quattro professionisti cubani, e con anestesisti a gettone. Allora si dovrebbe guardare in prospettiva e nel medio-lungo periodo, perché i rinforzi avulsi da un progetto di riqualificazione, che dovrebbe predisporre l’Asp di Cosenza di concerto con il commissario alla Sanità regionale, non ne modificano la condizione deficitaria e ne possono soltanto alleviare talune criticità datate, nel complesso di ordine organizzativo, strutturale e tecnologico.

I presìdi montani

Questi presìdi montani furono previsti in forma molto ridimensionata con il riordino della rete ospedaliera decretato nel 2010 da Giuseppe Scopelliti, allora presidente della Regione e commissario per l’attuazione del Piano di rientro dai disavanzi sanitari regionali. Di fatto, la configurazione di questi presìdi, ritoccata nel 2016 dal commissario Massimo Scura e dal suo vice Andrea Urbani in base agli standard ministeriali del 2015, non permette di soddisfare la domanda di salute delle popolazioni montane ricadenti nei rispettivi bacini. In primo luogo, infatti, sono nosocomi sprovvisti della Chirurgia generale e della Terapia intensiva, benché una norma regolamentare preveda la possibilità di attivarle (leggi qui). Spesso, poi, essi non garantiscono ecografie perché manca il personale medico che possa eseguirle. Stesso discorso vale per le tac con mezzo di contrasto nelle ore della notte. Inoltre, all’interno non vi è assistenza cardiologica, che per la viabilità, l’altitudine e il clima delle zone montane dovrebbe essere continuativa, di là da ogni perizia contabile. Inoltre, detti ospedali non hanno la disponibilità di un pediatra né un’unità di Ortopedia, che sarebbe piuttosto utile per le aree a vocazione sciistica.   

Al netto degli scontri politici e delle differenti narrazioni in ambito locale, bisogna domandarsi se l’attuale configurazione degli ospedali montani della Calabria sia o meno modificabile, e all’occorrenza quanto. Qual è il loro futuro, se già hanno organici in sofferenza e da lustri non sono più attrattivi né per i medici né per i pazienti? Per queste strutture si possono prevedere e attivare ulteriori reparti? È possibile concepirle come Spoke, che sono ospedali più attrezzati per gestire l’emergenza-urgenza e curare sul posto un considerevole numero di casi, esclusi quelli di maggiore complessità assistenziale? La questione non è mai stata affrontata al di fuori di discussioni tra alcuni addetti ai lavori, né sembra interessare parte della classe politica. Si tratta, in particolare, di coinvolgere l’amministrazione regionale (inclusa l’assemblea legislativa di Palazzo Campanella), il governo e il Parlamento in un percorso di auspicabile ridefinizione degli standard ospedalieri che permetta l’aumento della capacità assistenziale degli ospedali montani. Chi vorrà seguire questa strada, atteso che la condizione degli ospedali montani calabresi è pressocché invariata da una quindicina di anni? Un tentativo del genere era stato avviato senza interessi, tra l’autunno del 2020 e i primi mesi del 2021, a opera dei medici Tullio Laino e Giuseppe Brisinda, che, con il contributo del sottoscritto, avevano offerto alle rappresentanze politiche locali una proposta organica di riorganizzazione dell’ospedale di San Giovanni in Fiore, indicando le norme più utili e argomentando sul contenuto di quel testo, sulla scorta dei fabbisogni territoriali. Vennero interessati anche alcuni medici del posto e le forze sindacali, addirittura con diversi incontri on line, dato il periodo di restrizioni per la pandemia da Covid-19. Quel documento fu infine accantonato, sostituito con un altro, tuttavia meno completo, che il Consiglio comunale della cittadina silana poi approvò quasi all’unanimità.   

I quattro passi

Adesso quali passi si dovrebbero compiere? Almeno quattro, nell’interesse generale. Il primo passo: si dovrebbe aprire un tavolo regionale di confronto politico e poi tecnico sulla necessità e possibilità di riorganizzare gli ospedali montani della Calabria nel quadro di un’opportuna, auspicabile revisione della rete regionale dell’assistenza ospedaliera. Per esempio, a Cetraro e a Paola, che distano meno di mezz’ora di macchina, ci sono due stabilimenti ospedalieri che costituiscono un unico Spoke. Nello stabilimento di Cetraro esiste la Rianimazione, che non c’è a Paola, dove comunque si tratta l’emergenza-urgenza. «È di fatto una contraddizione, perché spesso l’assistenza – dichiara una nostra fonte – risente delle maggiori problematiche di personale dello stabilimento paolano, che è tra l’altro sprovvisto di Rianimazione. Allora perché non riunire le forze, evitando dispersioni di energie e il trasferimento di pazienti all’ospedale Cosenza»? Si può mettere da parte la logica del campanile, lì creando un solo presidio più performante, magari nella struttura di Cetraro, poiché presenta spazi migliori, verificando la possibilità di ricollocare il personale eventualmente eccedente in altri ospedali, intanto in quelli montani? Si creerebbero economie da riutilizzare altrove? L’interno montuoso della Calabria non può avere affatto altri reparti ospedalieri? La configurazione degli attuali ospedali montani è immutabile soltanto perché hanno, date le loro carenze notorie, bassi volumi di produzione? Si può investire nel loro rilancio? Se sì, con quali risorse? Si può, al riguardo, istituire un apposito Fondo vincolato, utilizzando somme del Fondo sanitario, di recente incrementato?
Il secondo passo: a livello locale si dovrebbero coinvolgere i sindaci e i consiglieri dei Comuni serviti dai presìdi ospedalieri montani, in modo da rappresentare insieme, al governo e al Parlamento, le istanze sanitarie di codesti territori, allargando l’iniziativa ai Comuni con pari caratteristiche delle altre regioni.
Il terzo passo: politici e sindacalisti locali dovrebbero chiedere ai propri referenti, provinciali, regionali e nazionali, un impegno convinto per cambiare la normativa sugli standard ospedalieri, in modo da superare i relativi bacini di utenza già definiti e quindi ampliare le dotazioni dei presìdi montani stanziando le risorse occorrenti.
Il quarto passo: le rappresentanze e le comunità delle aree montane dovrebbero chiedere che siano ottimizzate le risorse umane, la velocizzazione dei concorsi – anche riorganizzando le strutture amministrative preposte, ancora lente, secondo più di qualcuno – e nondimeno l’acquisto di nuovi strumenti con i fondi del Pnrr, da destinare agli ospedali più deboli sul piano delle dotazioni.

Miserendino

L’abitudine alla misure di breve periodo

Senza questi passi, la toccante vicenda di Serafino Congi continuerebbe ad avere ancora un impatto emotivo. Che però, da solo, non determinerebbe l’apertura di nuovi orizzonti né consentirebbe la tutela equa ed effettiva del diritto alla salute. In Calabria, il problema, forse principale, è di mentalità. Ciclicamente, ricompare l’idea di essere più o meno nelle stesse condizioni sanitarie degli altri territori italiani. L’altro problema è l’abitudine piuttosto diffusa alle misure di breve periodo, ai cerotti sugli squarci nel corpo sociale, alle soluzioni temporanee, all’emergenza perpetua. Ha ragione il dg dell’Azienda Zero, Gandolfo Miserendino, quando al Corriere della Calabria ha affermato che per le aree montane serve la programmazione, mancata per troppi anni. Adesso si tratta, dunque, di sedersi a un tavolo, ragionare e rivedere la rete regionale dell’assistenza ospedaliera per dare risposte alle popolazioni montane, che non possono essere tagliate fuori per il semplice fatto che lo sono ormai da 15 anni. (redazione@corrierecal.it)

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