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la riflessione

La scirubetta di Proust

La «scirubetta» de “L’albero delle noci” di Brunori rappresenta ciò che la madaleine de la “Recherche” rappresenta per Proust

Pubblicato il: 20/02/2025 – 9:49
di Vito Teti
La scirubetta di Proust

La «scirubetta» de “L’albero delle noci” di Dario Brunori ha rappresentato, in questi giorni, ciò che la madaleine de la “Recherche” ha rappresentato per Proust. Questa semplice, fantasiosa e antica mescolanza di acqua e miele (o vino cotto, caffè, limone, arancia, liquore) mi ha ricordato le “acciughe” di Vittorini di “Conversazioni in Sicilia”; mi ha fatto rivedere il padre de “L’uomo nel Labirinto” di Alvaro, che assieme ai figli beve acqua in una brocca, che viene passata di mano in mano. Nei miei post e nei miei scritti dedicati alla “scirubetta” di Brunori,  ho ricevuto, non esagero, centinaia e centinaia di commenti, in cui i miei lettori, con grande dovizia di particolari, mi raccontavano la loro «scirubetta», le mille varianti nella composizione, negli ingredienti e nella preparazione, passando dalla Sila alle Serre, dal Reventino alle Piana di Gioia Tauro, dal Vibonese all’Aspromonte, dalle zone montane a quelle collinari, dagli Arbëreshe ai greci di Calabria, e anche delle pianure e del mare. Improvvisamente, quasi magicamente, come accade alle parole dei poeti e degli artisti, si sono scatenati crogiuoli di ricordi, nostalgie, memorie di odori e sapori perduti, ma, soprattutto, la nostalgia di quella convivialità familiare, amicale, gioiosa, sociale in cui attorno alla scirubetta si compiva un rito rigenerativo e si trovava unita la comunità. Perché il mangiare non è mai dato dal cibo, dall’acqua, dai frutti, ma dal loro carattere simbolico, rituale, identitario. L’uomo non è ciò che mangia, ma è dove mangia, con chi mangia, cosa pensa del suo nutrimento, come lo ottiene, come lo sacralizza, come lo inserisce nei rituali della vita.
Alla scirubetta, che mescola neve e miele, fa da sfondo, da richiamo, da visione emozionale l’albero delle noci, che guarda, protegge, accompagna, la casa degli affetti e degli amori, la casa da dove si scorge il tempo volare e le generazioni succedersi, e il cantautore è sospeso, in questo tempo che si consuma come un piccola fiamma, inarrestabile tra passato e futuro. E l’albero delle noci non è una pianta qualsiasi: le noci fanno parte del nostro cibo, delle fate e delle streghe, delle nostre magie e “magherie” (Brunori ha letto De Martino e anche tanta letteratura antropologica e meridionalistica), dei nostri sogni, dei piatti natalizi, dei giochi, dei proverbi, dei canti, dei racconti dove svolgevano una funzione magica. E il noce, per molti di noi, era parte del paesaggio, della nostra vista, del nostro orientamento. La nostra “identità” nasce dal senso infantile del paesaggio. Il noce faceva parte del nostro sentimento ecologico, del nostro legame con la natura ed ecco che una disciplina chiamata ecomemoria ci ricorda la forza e la lunga durata del ricordo di quello che abbiamo vissuto come nostro tratto “identitario”. Ci sono nelle rapide immagini di Brunori, le metafore di un mondo perduto e che vogliamo ricordare; la nostalgia di ciò che abbiamo vissuto e che non può più tornare, che tuttavia afferma il bisogno di “comunità” che andiamo cercando, in un mondo incerto, labile, fragile, dove ognuno si chiede quotidianamente “Dove sono?” (Bruno Latour) soprattutto dopo il Covid e con i drammatici eventi di questi anni e di queste ore). Finalmente una terra, una cucina, una realtà complessa e, certo, contraddittoria, segnata da grandi contrasti.
La Calabria (certo non tutta) aspira, sempre con maggiore convinzione, ad essere rappresentata nelle sue articolazioni e nelle sue ricchezze: rinuncia a diventare la terra del peperoncino o della ´nduja (e non si banalizzi adesso la scirubetta), ma può essere la terra di mille sapori, colori, profumi, emozioni, affetti, acque, paesaggi, neve, alberi. Trovo splendido che una parola, un’espressione, una nota riportino a riscoprire i tratti del mondo popolare, che non va mitizzato, banalizzato e folklorizzato, ma va custodito nella memoria, nelle sue potenzialità inespresse (Thompson, Ghosh, Traverso, Fofi), nel cammino delle vie che non abbiamo mai intrapreso e, che, forse, proprio oggi, tempo senza direzione e senza telos, potremmo guardare in maniera nuova, quasi sovversiva. Non c’è colore, non c’è folklorismo localistico, in questa religione del cibo, delle piante, del tempo di ieri e di oggi; Brunori sa che la terra in cui è nato è segnata da contrasti e da ombre, sa che «le persone buone portano in testa corone di spine», ha imparato sin «da bambino la differenza fra il sangue e il vino». Il sangue (cfr. Camporesi, Di Nola, Lombardi Satriani, Meligrana) è elemento di morte e di vita; il vino è anche sangue, acqua, vita, morte. E Brunori sa «che una vita si può spezzare per un pezzetto di carne o di pane». Nella sua ballata di amore non c’è posto per le stereotipate atmosfere cupe e nere, ma la sua scelta è quella di «navigare anche in assenza di stella polare», di cambiare la voce, cambiare racconto, scegliere parole di verità, cantare l’amore alla figlia, alla mamma, alla compagna. Questo mondo matriarcale di Brunori, forse, ci fa capire anche come le donne abbiano segnato, con la loro fatica e il loro dolore, le loro attese e la loro richiesta di libertà, la storia e la mentalità della regione.
Mi sono soffermato, certo a modo mio, sul testo di Brunori, perché senza ripensarlo, senza ragionarci sopra, diventerebbe difficile capire il perché del “successo” di Brunori e del suo essere stato visto dai calabresi come uno di loro, come una figura da cui ci si sente “rappresentati” quasi, unanimemente, da tante genti diverse e separate che si scoprono “comunità”. Chi dice di avere sostenuto Brunori soltanto perché “calabrese”, ci conduce senza scampo in un angusto e localistico senso dell’appartenenza e nella retorica di un’identità che non ha storia, geografia, anima. Le affermazioni del “noi calabresi” unici, migliori, le tante discussioni su identità, stereotipi e autostereotipi certo hanno il merito di chiamare in causa un malinteso, retorico, astorico, monocromatico senso dell’identità, ma da tutto questo Brunori si è allontanato, ha saputo anche ironizzare, giocare facendo i conti con la sua storia, il suo dolore, la sua felicità, la sua inquietudine in cerca di un “porto sicuro”. Non è un’operazione facile, perché tutti noi sappiamo quanto sia sottile la “linea” che separa la “persuasione” dalla “rettorica” e, non di rado, ne restiamo avvinghiati.

Dario Brunori

Pochissime volte, nella storia recente della Calabria, ho visto tanto entusiasmo, grande partecipazione, anche divertita e ironica (esemplare quella de “Lo Statale Jonico”), un fenomeno di identificazione attorno ad un autore visto, oltre che come artista e musicista, come rappresentante e simbolo di una Calabria di cui non vergognarsi, ma anzi di cui andare orgogliosi. Una volta di più, abbiamo capito, che “narratore” di una nuova realtà, ispiratore di fiducia e di speranza, non è chi si presenta come tale, o chi mente per affermare buoni sentimenti, ma chi sa coniugare identità dell’essere e identità del fare, di chi con “persuasione” sa schivare le trappole della retorica sempre in agguato, anche tra gli “antiretorici”. “Un calciatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”, cantava De Gregori, impropriamente accostato a Brunori; un cantautore, un artista, uno scrittore, lo vedi dal coraggio, dall’altruismo dalla fantasia, dalla sua sincerità, dalla sua semplicità, dall’impossibilità di mentire, dall’essere sempre sé stesso, senza pensare a come piacerebbe essere visto dagli altri. Bisogna sapere ribaltare il gioco perverso degli sguardi ostili e incrociati, di una tendenza a dare sempre la colpa agli altri e ad affidare agli altri le nostre narrazioni. Brunori è contagioso ed è stato assunto a “modello” perché, più di tanti analisti, parolai, retori del partire e del restare, ha mostrato che, pure tra difficoltà, in un piccolo paese, si può diventare Brunori, fare musica, dialogare con il mondo, restare con piacere e senza affermare una superiorità quasi “genetica”. Restare è fatica, dolore, scelta, amore, viaggio assieme la propria terra mobile, aperta, inclusiva.
Mi piacerebbe che tutti i calabresi che, variamente, si sono riconosciuti in lui, facessero la loro parte. Brunori non può diventare un alibi per non fare, non può diventare immaginetta o icona. I simboli hanno vita breve, o cambiare segno, se non vengono sorretti dall’azione, dalla soggettività e dall’attività delle persone. Tanti calabresi, con serietà e argomentazione, hanno capito che questa era un’occasione non solo per sostenere un artista, ma per rivendicare una Calabria aperta, dialogante, capace di mettersi in gioco nel mondo senza rinunciare ad esprimere i propri sentimenti. Brunori ha rivelato un’anima garbata, sorridente, autoironica, ha saputo fare anche tante scelte civili e simboliche, senza essere schiacciato in appartenenze rigide, ma con una sua libertà che rasenta l’utopia. Quale artista potrebbe dichiarare, tra il serio e il faceto, che il “futuro sarà della Calabria” se non adottasse uno sguardo rovesciato, un’ironia carnevalesca, un pensiero utopico aperto alla speranza? Sapremo trovare tutto questo desiderio di appartenenza, tutta questa voglia di esserci, tutto l’orgoglio delle nostre tradizioni, anche per contrastare la malapolitica, le massomafie, che si sono insinuate dovunque, per sentire “fratelli tutti” i calabresi sulla soglia della povertà, vittime di politicanti impresentabili, di affaristi, che cacciano i giovani e svuotano i paesi. I diritti non si chiedono, si affermano, si ottengono con visione progettuale e con la lotta politica. Anche i belli e puri, quelli che, in maniera aristocratica, rifuggono sempre dal “popolare” potrebbero dire quale rappresentazione, quale progetto, quale politica hanno in mente, anche per la Calabria, che soffre e fugge, ama e canta, vuole ribaltare lo stato delle cose. Brunori ha saputo, negli anni, mandare un segnale. Forte. Inconfondibile. Discutibile, certo. Ma ha detto parole importanti e sensate anche col sorriso sulle labbra. Forse dovremmo capire che adesso è più difficile continuare a raccontarci menzogne: tutto è diventato più impegnativo “dopo” Brunori.

Testo

Sono cresciute veloci le foglie sull’albero delle noci
E nei tuoi occhi di mamma adesso splende una piccola fiamma
lo come sempre canguro fra il passato e il futuro
Scrivo canzoni d’amore alla ricerca di un porto sicuro
E come un ragioniere in bilico fra il dare e l’avere
Faccio partite doppie persino col mio cuore
Come si può cadere in basso
Da una distanza siderale
Sono passati veloci questi anni feroci
E nel mio cuore di padre il desiderio adesso è chiuso a chiave
E tu sei stata bravissima all’esame di maturità
Ad unire i puntini fra la mia bocca e la verità
Che tutto questo amore io non lo posso sostenere
Perché conosco benissimo le dimensioni del mio cuore
E posso navigare anche in assenza di stella polare
Vorrei cambiare la voce
Vorrei cantare senza parole
Senza mentire
Per paura di farti soffrire
Vorrei cantarti l’amore, amore
Il buio che arriva nel giorno che muore
Senza cadere
Nella paura di farti male
Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele
E le persone buone portano in testa corone di spine
Ed ho imparato sin da bambino la differenza fra il sangue e il vino
E che una vita si può spezzare per un pezzetto di carne o di pane
E a tutta questa felicità io non mi posso abituare
Perché conosco il sogno del faraone
Le vacche grasse e le vacche magre
E che si può cadere da una distanza siderale

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