Ci sono alcune leggende su rinomati prodotti gastronomici italiani, che molto probabilmente non sono per nulla veritiere, ma si presentano come tali forse per il loro fascino, forse per la loro bizzarria, forse per la loro originalità. Questa è una di quelle.
Tutto sarebbe cominciato a Labastide- Fortunière, comune situato nel Dipartimento del Lot nella regione storico-linguistica dell’Occitania, nel sud della Francia. Lì, il 25 marzo 1767, la signora Jeanne Loubières, moglie di Pierre, “il Locandiere” del paese, diede alla luce il quinto dei suoi sette figli, a cui fu dato il nome di Joachim. Il bambino cresceva bene, sano e vigoroso, ed i suoi genitori volevano che seguisse la carriera ecclesiastica e per questo motivo entrò in Seminario, ma dato il suo carattere irruento, portato ai litigi e sempre pronto alla polemica, fu espulso da questo Istituto ecclesiastico a 20 anni, nel 1787. Dire che Joachim la prese male, sarebbe una manifesta bugia.
Infatti, da quella data egli cominciò a progettare il suo futuro e decise che ciò che più lo interessava era la vita militare. Quelli per la Francia erano anni eccezionali, in cui una iniziale e alquanto pacifica, ma radicale, contestazione all’assolutismo di Luigi XVI, degenerò in una Rivoluzione di popolo, la cui data simbolo, ancora oggi Festa Nazionale, fu il 14 Luglio 1989, quando ebbe luogo, da parte di una folla in armi, la “Presa della Bastiglia”, una prigione-fortezza simbolo del potere arbitrario del monarca francese. Il Paese era soprattutto una società segnata da profonde disuguaglianze e divisa in tre Ordini: Nobiltà, Clero e Terzo Stato (il quale pur rappresentando il 98,5% della popolazione e pagando esose tasse, non aveva alcun diritto civile e politico). E da quel 14 Luglio, per manifesti e continui errori del re, le cose degenerarono e la Francia divenne, sotto la spinta rivoluzionaria, prima una Monarchia Costituzionale e successivamente, deposto Luigi XVI nell’agosto 1792, il 21 settembre dello stesso anno una fu proclamata la (Prima) Repubblica Francese.
Fu proprio l’anno precedente, il 1791, che Joachim si arruolò nell’ Esercito Rivoluzionario, e si distinse subito per le sue doti, fino a diventare nel tempo Comandante di cavalleria, dove le sue cariche di corazzieri si fecero sempre più accurate e devastanti, fino a diventare in futuro spesso risolutive per l’esito di una battaglia. Sì, perché il giovane talento fece carriera, una brillantissima carriera. Infatti si legò acutamente a Napoleone Bonaparte, di cui divenne strettissimo collaboratore. Gli anni a cavallo fra i due secoli, videro infatti una vertiginosa ascesa del Generale venuto dalla Corsica, il quale in seguito al Colpo di Stato del “18 Brumaio” (9 novembre) del 1799, Divenne Primo Console, per poi trasformare la sua carica in Consolato a vita nel 1802 e infine autoproclamatosi Imperatore dei francesi il 18 maggio 1804.
Tale potere sempre maggiore non poggiava sul nulla, ma si alimentava e cresceva grazie alle vittorie militari di Bonaparte. Marengo, Ulm, Austerlitz, Jena, Auerstadt furono solo alcuni dei tanti successi che gli consentirono di sottomettere una grandissima parte d’Europa. Naturalmente l’Italia non fu esclusa. Infatti con la Vittoria di Marengo del 1800 Napoleone conquistò prima l’Italia settentrionale, facendone un Regno di cui cinse la corona, per poi proseguire e sottomettere nel 1806 tutta la penisola, ad esclusione di Sardegna e Sicilia, isole in cui si rifugiarono rispettivamente i sovrani di Cada Savoia e di quella di Borbone..
In questi anni Joachim fu sempre immancabilmente al comando della sua feroce cavalleria, e per i suoi meriti nel 1804 divenne Maresciallo di Francia, sposando inoltre la sorella di Bonaparte, Carolina, e diventando così cognato dell’Imperatore. Nel frattempo, il trono del Regno di Napoli, deposto Ferdinando IV di Borbone, fu assegnato prima nel 1806 al fratello di Bonaparte, Giuseppe, e due anni dopo a Joachim Murat-Jordy, conosciuto in Italia col nome di Gioacchino Murat. La politica intrapresa dal nuovo sovrano venuto dalla Francia, fu quella di portare a termine l’operato abbozzato dal predecessore Giuseppe, ovvero di modernizzare il Regno e cancellare l’impronta da “ancien règime” che ancora lo contrassegnava. A tal proposito le tre principali riforme realizzate furono: Primo. Abolizione della feudalità e dei vincoli vassallatici che legavano i contadini, sostanzialmente ancora allo stato di “servi della gleba” e conseguente distribuzione di terre a questi ultimi. Secondo. Adozione del Codice Civile Napoleonico che, abolendo il sedimentato intreccio di norme feudali e costumi giuridici frammentati e arcaici, stabiliva principi chiari ed uniformi, applicabili senza distinzione a tutti i sudditi del Regno, ora uguali di fronte alla legge. Terzo. Centralizzazione amministrativa e suddivisione del territorio regio in nuove Province, Distretti e Comuni, con l’adozione delle figure dei Prefetti napoleonici a capo delle Province e l’obbligo di nomina di Sindaci in tutti i Comuni del Regno.
Questi provvedimenti radicali, sebbene non abbiano estirpato totalmente l’arcaicità degli antichi costumi del territorio regio a causa del loro consolidato radicamento, innovarono decisamente il Regno di Napoli, pur non cancellando alcuni tratti secolari che lo caratterizzavano. Il primo di tutti era la fame, atavica e persistente, tanto nelle campagne quanto nelle città. Spesso nelle prime, nonostante l’abolizione della feudalità, parte del raccolto andava ancora ai nobili, mantenendo i contadini in un costante regime di sottoalimentazione. Ancora peggio era nelle città, soprattutto nella popolosa Napoli, in cui si viveva spesso in promiscuità, caratterizzata da frequenti epidemie e non di rado dalla mancanza del più fondamentale degli alimenti, il pane. Simbolo di ciò erano i cosiddetti “lazzaroni, o per meglio dire “lazzari”, come venivano abitualmente chiamati, il cui termine deriva dall’assoluta miseria che li caratterizzava e dal loro abbigliamento, abitualmente ridotto a laceri cenci.
Murat fece il possibile per attenuare questa drammatica situazione, sia nelle campagne, tramite ulteriori distribuzione di terre, che a Napoli, calmierando il prezzo del pane, del vino, del sale e dei legumi e, non bastando ciò, ricorrendo a distribuzione di grano, riso, orzo, segale, olio e di un particolare insaccato che ci riporta alla nostra leggenda. Esso si chiamava “Andouille” , una salsiccia francese fatta di interiora di maiale e sale. Naturalmente il suo sapore non era tra i migliori, ma inaspettatamente, sempre secondo la leggenda, vera o meno che sia, ispirò un “lazzaro” proveniente, secondo la riorganizzazione territoriale di Murat, da un Comune del Distretto di Tropea, facente parte del Dipartimento della Sagra.
Egli, di cui ci è ignoto il nome, conosceva bene un tipo di insaccato molto simile alla “andouille”, diffuso tra i meno poveri contadini calabresi, che avevano la fortuna di possedere un maiale. Infatti essi, che come è noto del suino “non si butta via nulla”, erano soliti raccogliere tutti i peggiori scarti e le interiora non utilizzabili per altro scopo, ed immetterli in un budello del maiale stesso. Ma poiché il sapore di questa salsiccia era, come è comprensibile, alquanto disgustoso, ovviavano a ciò riempiendo il budello anche con ricche dosi di peperoncino, coltivato in Calabria già dalla metà del 1600, tanto da far divenire il piccante il sapore dominante e rendere più facilmente commestibile l’insaccato. Esso aveva nomi diversi nei vari centri del territorio, ma la sostanza restava praticamente la stessa.
Secondo la leggenda, la grande intuizione dell’ignoto lazzaro calabrese proveniente da Spilinga, un Comune nel Distretto di Tropea, ed oggi in Provincia di Vibo Valentia, fu quella di “ingentilire”, per così dire l’insaccato. Così tornato al suo paese d’origine sostituì gli scarti e le frattaglie, con carne tritata, grasso di maiale, sale e naturalmente l’immancabile peperoncino, ma in quantità non superiore al 20% e dando a questo prodotto, ora senz’altro di assai migliore qualità e molto più gradevole al gusto, il nome di “Nduja”, italianizzando forse, il francese “andouille”.
La nduja di Spilinga, e questa non e più leggenda ma realtà, ebbe un successo inaspettato, tanto da divenire nel tempo il più noto insaccato calabrese, giustamente piccante, spalmabile sul pane o usato come ingrediente per il sugo con cui condire la pasta, nonché utilizzato dai cuochi, o nelle famiglie, nei modi più vari e fantasiosi. La sua qualità, dopo un lungo iter burocratico-amministrativo, iniziato nel 2008 ad opera di un’Associazione specifica, che ha presentato al Ministero delle Politiche agricole un disciplinare di produzione, il quale ne definiva le caratteristiche (naturalmente moderatamente innovate e migliorate nell’ arco di due secoli), le materie prime utilizzate, il metodo di lavorazione e la località geografica di provenienza, sta per ricevere infine da parte dell’Unione Europea il riconoscimento IGP (Indicazione Geografica protetta).
Così si conclude la storia, o più probabilmente la leggenda, del più rappresentativo dei salumi calabresi, che deve forse la sua origine ad un anonimo lazzaro di Spilinga, accidentalmente trovatosi a Napoli ,e forse anche un pochino ad un monarca illuminato di nome Joachim Murat-Jordy, conosciuto in Italia come Gioacchino Murat.
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