MILANO Sotto l’ombra della Madunnina è alta l’attenzione sulla ‘ndrangheta, dall’alleanza del mostro a tre teste di “Hydra“ al business negli stadi. Si mostra quasi incredulo il presidente del Coni Giovanni Malagò, che in Commissione Antimafia, si sofferma sull’inchiesta “Doppia Curva” della Dda di Milano contro l’organizzazione criminale che in questi anni avrebbe gestito del curve di Inter e Milan, sotto l’influenza ingombrante della ‘ndrangheta. E se la presenza dei malandrini calabresi camuffati da ultras sorprende, non desta stupore il legame della Calabria alla capitale della moda e della finanza. L’allora sostituto procuratore generale di Catanzaro, Salvatore Curcio (oggi procuratore della Dda di Catanzaro) concluse – nel 2013 – un’indagine che consentì di risolvere sette omicidi, ricostruendo la genesi della criminalità di Petilia Policastro.
C’è un anno che gli investigatori segnano con il circoletto rosso. E’ il 1991 e in una abitazione di Petilia Policastro siedono al tavolo gli esponenti della famiglia Comberiati capaci di riunire il gotha del crimine calabrese presente in Lombardia. Una sedia venne riservata anche ai De Stefano. Quella cena e quella stretta di mano tra i presenti rende concreta per gli inquirenti «la saldatura con i gruppi calabresi che a Milano controllavano lo spaccio di stupefacenti». Sono i pentiti a parlare e riferire ai magistrati i dettagli della presunta suddivisione dei poteri. «Cutro, Petilia Policastro, Mesoraca, Isola Capo Rizzuto erano alleate e operavano sotto la più autorevole egida di De Stefano di Reggio Calabria». La presenza al Nord di uomini “battezzati”, inoltre, garantisce il «controllo stabile della ‘ndrangheta calabrese».
Chi raggiunge Milano da Petilia Policastro, per fuggire dall’inferno della ‘ndrangheta, è Lea Garofalo. Un percorso diverso da quello di alcuni suo compaesani, partiti dalla Calabria per trasferire in Lombardia ordini e strategie criminali. La donna decide di collaborare con la giustizia nel 2002 e le sue dichiarazioni sono fondamentali per la Dda impegnata a ricostruire e risolvere quei sette fatti di sangue. Lea Garofalo pagherà con la vita l’aver confidato segreti inconfessabili ai magistrati, la sentenza di morte emessa dal tribunale della ‘ndrangheta giunge puntuale.
Nel novembre del 2009, il marito Carlo Cosco attira l’ex compagna in un agguato: il resto è un cumulo di azioni brutali perpetrate da chi tortura e strangola la donna prima di sciogliere il suo corpo in un terreno nel monzese.
Sfogliando l’archivio del Corriere della Sera, si scopre di un tentativo di “sfratto” nei confronti delle ‘ndrine petiline di stanza a Milano. E’ il giornalista Cesare Giuzzi a ricostruire «i ricordi della guerra di viale Montello» e di immobili in mano ad abusivi. Le denunce fioccano e arrivano sul tavolo della procura in attesa «dello sgombero di famiglie calabresi storiche che hanno gestito il mercato dell’eroina, della cocaina» arrivate fino a Quarto Oggiaro, «quartiere diventato negli anni Novanta una “provincia” dei petilini di viale Montello». La mano insanguinata della ‘ndrangheta aveva iniziato a mietere vittime già alla fine degli anni Ottanta. «Omicidi, sparatorie, mitra nascosti nelle pareti a due passi dal Duomo e quasi ignorati nella Milano dei 130 morti ammazzati l’anno», racconta Giuzzi. Il pentito Vittorio Foschini, ex braccio destro di Franco Coco Trovato, alleato dei De Stefano di Reggio Calabria, cristallizza in una preziosa confessione resa nel ’97 «la geografia di viale Montello». Seguono anni di faide per il controllo del potere e soprattutto del mercato della droga, le piazze di spaccio si riempiono di proiettili e sangue, chi non muore viene arrestato. Il blitz è soprannominato «Storia infinita», come quella che lega la Calabria a Milano. (f.benincasa@corrierecal.it)
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