MILANO Ci sono esponenti di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta e della Camorra, nomi legati a storiche famiglie, vecchi clan e ‘ndrine egemoni anche nel Nord Italia. Qui dove hanno messo radici da decenni, muovendosi nell’ombra e “spolpando” attività economiche e imprenditoriali.
La Distrettuale antimafia di Milano, nella figura del sostituto procuratore Alessandra Cerreti, ha chiuso l’indagine “Hydra” nei confronti di 146 persone, ad oltre un anno e mezzo dai primi arresti (QUI LA NOTIZIA) e dopo aver ricomposto una inchiesta “smontata” quasi pezzo per pezzo dal gip.
Un’indagine imponente che mira a far luce su un sistema criminale che, per conquistare un territorio ricchissimo, avrebbe unito le forze, creando il “Sistema mafioso lombardo”, potendo fare affidamento su famiglie con alle spalle esperienze criminali certificate da arresti e sentenze passate in giudicato, avvalendosi anche della classica forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e omertà nel territorio delle città di Milano, Varese e zone limitrofe.
La ‘ndrangheta calabrese, attiva a Milano e nell’hinterland milanese ormai da anni, sarebbe riuscita a costituire ben 18 locali: Bollate, Bresso, Ganzo, Cormano, Carsico, Desio, Erba, Legnano-Lonate Pozzolo, Limbiate, Mariano Comense, Milano, Pavia, Pioltello, Seregno e Solaro. Tutti coordinati da un organo denominato “la Lombardia”, in cui hanno rivestito un ruolo di vertice nel corso del tempo Cosimo Barranca, fino al 15 agosto del 2007, poi Carmelo Novella, fino al suo omicidio avvenuto il 14 luglio 2008 e, infine, Pasquale Zappia, fino al momento del suo arresto. “La Lombardia”, dunque, sarebbe a tutti gli effetti un organo deputato a concedere agli affiliati “cariche” e “doti”, secondo gerarchie prestabilite, e ad autorizzare l’apertura di nuovi “locali” e a stabilire le nuove strategie dell’associazione mafiosa.
L’inchiesta “Hydra”, dunque, avrebbe fatto luce innanzitutto sul locale di Legnano-Lonate Pozzolo, considerata alleata e comunque collegata alla cosca Farao-Marincola di Cirò, rappresentate a Milano, secondo la Dda, da Vincenzo Rispoli, Massimo Rosi, Giacomo Cristello, Francesco Bellusci e Pasquale Filomeno Toscano. E poi la cosca Iamonte, facente parte del locale di Desio, alleata con la cosca di Melito Porto Salvo e, infine, Antonio Romeo, espressione a Milano della famiglia dei Romeo “Staccu” operante sul territorio di San Luca, figlio di Filippo Romeo. L’Antimafia di Milano avrebbe documentato una serie reati commessi dagli appartenenti al “Sistema mafioso lombardo”, tra cui rapine, truffe, riciclaggio, intestazioni fittizie, false fatturazioni per operazioni inesistenti, cessioni di falsi crediti d’imposta ed estorsioni. Contestato anche il reato di traffico di sostanze stupefacenti. In particolare, dell’associazione finalizzata al narcotraffico farebbero parte, secondo l’accusa, Gioacchino Amico, Giuseppe Castiglia, Giuseppe Fiore, Pietro Mazzotta, Sergio Sanseverino, Giuseppe Sorce – tutti appartenenti al gruppo “Senese” e Massimo Rosi, del locale di ‘ndrangheta di Legnano-Lonate Pozzolo.
«(…) i calabresi, i napoletani o i siciliani, i carcerati vanno mantenuti prima di ogni altra cosa a questo mondo!». Secondo l’accusa, l’appartenenza al “Sistema mafioso lombardo” imponeva «il versamento di somme di denaro nella cassa comune destinate al sostentamento dei detenuti di ciascuna componente», ma anche pretese quale corrispettivo per l’assegnazione e l’agevolazione negli affari leciti o illeciti, «in virtù della forza di intimidazione dell’intera associazione», secondo la Distrettuale antimafia di Milano.
«Ci sono tutti i miei parenti, adesso maschi e femmine, abbiamo un bel pacchetto voti, perché posso portare o Senatori in Europa, miei parenti». Tra gli interessi del “Sistema”, anche quello politico, con l’attivazione di «contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale e bancario», così da ottenerne favori, notizie riservate, erogazione di finanziamenti, rete di relazioni, «tutti in grado di fornire un contributo rilevante al mantenimento in vita, al rafforzamento dell’organizzazione e ad aumentarne il prestigio», secondo la Dda.
Come ricostruito dall’inchiesta, inoltre, il “Sistema mafioso lombardo” sarebbe stato in grado di acquisire direttamente e indirettamente la gestione e il controllo di attività economiche, in particolare, nel settore logistico e in quello edilizio, ma anche nel settore sanitario, nelle piattaforme e-commerce, la ristorazione, il noleggio auto e la gestione di parcheggi aeroportuali, e il settore petrolchimico e l’importazione di materiali ferrosi.
Per quanto riguarda la ‘ndrangheta, all’interno del “sistema mafioso lombardo” gli elementi di vertice sarebbero Vincenzo Rispoli (cl. ’62) di Cirò Marina e Massimo Rosi (cl. ’68). Il primo, nonostante si trovasse in carcere al regime del 41bis, sarebbe riuscito «ad impartire precise direttive volte alla ricostituzione del locale di Legnano-Lonate Pozzolo», facendo recapitare a Massimo Rosi, «tramite il figlio, una missiva con la quale ne autorizzava la riorganizzazione». Rosi, dal canto suo, considerato reggente del locale di ‘ndrangheta di Legnano-Lanate Pozzolo e componente del “sistema mafioso lombardo”, avrebbe organizzato e diretto «tutte le attività finalizzate alla ricostituzione del locale di Legnano-Lonate Pozzolo, attraverso l’arruolamento e l’affiliazione di nuovi soggetti, attraverso l’ingaggio di storici affiliati quali Armando Lerose, Pasquale Rienzi ed altri, inviando e ricevendo comunicazioni da e per la Calabria, funzionali al coordinamento con gli altri locali ed alle nuove affiliazioni». Rosi, sempre secondo l’accusa, avrebbe avuto un ruolo di mediazione e trait d’union «tra la locale e le altre componenti facenti parte del “Sistema mafioso lombardo” e, in particolare, con il clan camorristico Senese e la famiglia di Cosa Nostra Rinzivillo».
Altro elemento di spicco individuato dalla Dda, sarebbe Santo Crea (cl. ’52) di Melito Porto Salvo, «espressione della cosca Iamonte facente parte del locale di Desio e collegata al locale di Melito Porto Salvo. Santo Crea, in particolare, avrebbe attribuito al figlio Filippo (cl. ’75) «il ruolo di referente della cosca al Nord Italia», impartendo direttive «al figlio e a Demetrio Tripodi in relazione alle varie attività economico-finanziarie illecite e alle intestazioni fittizie» del clan. (g.curcio@corrierecal.it)
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