«Nel sottofondo della memoria di questi abitanti della costiera e dei paesi sulle pendici dell’Aspromonte, c’è l’urlo del torrente. […] C’è nell’animo di quegli abitanti, appena le prime piogge ballano sulle tegole delle casupole senza soffitto, la paura di quello che può fare la montagna. Fra veglia e sonno, si sente l’urlo, continuo, come un cane invocante tra squilli di campane. È la corrente nel suo letto di rotolanti pietre sonore. Da vicino si sente questa sorda orchestra di pietre, a tratti squillante trionfalmente» (Corrado Alvaro, 1954).
Corrado Alvaro è certo lo scrittore che, con lucidità e passione, tra pietas e speranza, descrive la fine dell’antico mondo e la lenta chiusura dei paesi.
L’immagine dei paesi presepi, arroccati, appesi a fragili poggi, che si sfasciano, crollano e vengono abbandonati, dei piccoli borghi che si svuotano nelle regioni del Sud, coglie senz’altro uno degli aspetti che mostrano visivamente la fine, anche materiale, anche geoantropica, dell’universo tradizionale che si avviava, per necessità e per scelta, verso una modernizzazione dalla fisionomia incerta e contraddittoria, con limiti e paradossi.
Così scrive Alvaro, in Un treno nel Sud (1958; n. ed. Rubbettino, 2017) cogliendo il carattere di un paesaggio fatto di paesi:
«Un altro aspetto della Calabria, è quello dei paesi abbandonati e disabitati sui monti e sui colli, le finestre vuote, il campanile vuoto ancora in piedi, il castello diroccato. Non soltanto le frane ne consigliarono l’abbandono, ma la maggior sicurezza di dopo l’Unità, la creazione di centri di commercio e di centri agricoli».
In Itinerario Italiano descrive il paesaggio che «si stendeva infinitamente quella sponda greca che da Crotone si prolunga fino al Capo Spartivento, col suo colore di terra antica fra i colli digradati dal balzo abissale dei monti, le crete aride, le fioriture enormi di certi poggi, le rocche medievali, gli sproni dei monti, le torri dirute, i castelli abbandonati, i paesi disertati sui colli franosi, con la luce che si affaccia alle finestre vuote dai tetti sprofondati».
E ancora in Un treno nel Sud:
«Chi attraversa la Calabria, vede sui cocuzzoli dei colli e dei monti i lontani paesi appartati dalle marine e dai traffici. Sorsero lontani dal mare in un tempo infido. […] Presso il mare era la terra malsicura, e la terra del feudo; oggi la terra d’oro degli agrumi il cui prezzo raggiunge perfino i due milioni per ettaro».
In uno dei più belli e significativi racconti del Novecento europeo, tra i più noti e studiati, Il ritratto di Melusina, pubblicato nella raccolta L’amata alla finestra, Alvaro fotografa gli esiti della discesa lungo le marine, il progressivo abbandono dei paesi interni, a cominciare dalla chiesa, che era l’axis mundi, il campanile di riferimento delle persone dell’antico mondo:
«Il paese abbandonato intorno si sfascia rapidamente, le piazze e le strade deserte sono amplificate dai meandri che si aprono nelle case crollanti, di dove hanno portato via le porte e le finestre, gli ammattonati e le tegole. Crollano a ogni pioggia, con un polverino minuto, i tetti e i pavimenti nelle cucine e nelle stalle. […] La fontana s’è rotta come una vena, e si vede correre il filo dell’acqua nelle èmbrici messe a canale. La chiesa è spalancata, l’altare disadorno, e qui il muro che si sfalda è pieno di dramma: sembra che qui sia un perpetuo Venerdì Santo, quando si manomettono gli altari e se ne abbattono le suppellettili. L’eco delle squille e dei canti è fuggita attraverso le rotte vetrate. Le pietre tombali ricevono il sole del soffitto squarciato».
Alvaro fotografa il disfacimento geografico, fisico e morale dei paesi dell’interno, delinea un’antropologia dell’abbandono, coglie gli stati d’animo, le emozioni e la mentalità delle persone che vivono la dissoluzione di un mondo.
Nel capitolo, L’urlo del torrente, in Un treno nel Sud, Alvaro ricorda come il cielo sereno diventi immediatamente rabbuffato, la «montagna si metta a urlare, messa in allarme con mille voci» e «dai profondi burroni si leva uno scroscio alto e modulato». Il letto del torrente, asciutto qualche minuto prima, è «percorso da centinaia di rivi che si cercano e si confondono. Da tutte le parti la montagna scarica i suoi rigagnoli e i suoi canali. In un istante tutto si calma, la pioggia fugge e si disperde; rimane solo lo scroscio del torrente vicino, mentre tutti gli altri canali del monte si quietano quasi di colpo. I torrenti, con un bel nome antico, Mèsima, il Calopinace, l’Angitola, il Bonamico, il Mèlissa, l’Ancinale invadono i paesi alti raggiungendo il livello dell’acquasantiera delle chiese, e provocando devastazioni alle culture, apprensione e terrore nelle persone, che si fermano e non possono uscire con le loro mandre».
Il «torrente in Calabria è un mostro perfido ben più presente del terremoto; frantuma i ponti come fragili gabbie, passa sopra gli agrumeti e gli uliveti, demolisce le strade a mezza costa, spacca la casupola lassù». Dopo le alluvioni, come quelle dei primi anni Cinquanta, i paesi conoscono la loro sepoltura.
«Il paese di Cardinale, per esempio, ha la sua sepoltura pronta. L’Ancinale gli scorre davanti; dietro, la sua montagna frana. Si vede la spellatura del colle e una crepa, come fa il lievitare su una pagnotta. I boscaioli seguitano a spiantare gli alberi. Sono lavoratori che si guadagnano il pane; il disboscamento ha i permessi in regola, e intanto affretta la bara al paese. Cardinale è condannata. A tre o quattro chilometri è tracciato il piano regolatore della nuova Cardinale, su un piano cui si sale dalla rotabile per una ventina di scalini di granito. Le erbe hanno coperto la traccia del piano regolatore. Ma dei criteri urbanistici degli ordinatori è un attestato il gruppo di case già abitato. Sono tre file di lunghi edifici gialli, paralleli, monotoni, che ricordano i campi di concentramento o i padiglioni di qualche città di malati poveri. La popolazione di Cardinale esita a trasferirsi; al suo vecchio paese ha una chiesetta rustica ma col suo colore, ha qualche casuale prospettiva di vicoli, un poggiolo, una colonnina, che attestano una vita povera ma intima. Sotto la frana cullano i loro bambini; i vecchi sulla soglia, in cima alla scala esterna, guardano la luce; le donne sui poggioli filano; i bambini ruzzano, i focolari fumano. Arrivano i colpi di quelli che abbattono gli alberi. Basta che la donna col suo bambino in braccio levi la mano, per indicarvi imminente il colle che pericola. Si lagna soltanto che prima il bosco era dato dal Comune ai lavori della gente del paese, e che ora invece sia stato appaltato».
I paesi si trasferivano lungo le coste, dove rinascevano come inquietanti e perturbanti doppi, o altrove, all’estero, in Nord Italia.
Giovanni Russo ha raccontato in Baroni e contadini il suo incontro a Gaeta con i profughi di Gallicianò, uno dei paesi alluvionati di Calabria, e li chiamava profughi. Alvaro aggiungeva che in realtà si potrebbero chiamare «internati» nella fortezza di Gaeta, come gli altri paesani di Condofuri e Amendolea, colpiti dalla stessa calamità, che erano stati «internati» a L’Aquila.
I profughi e gli internati calabresi, aggiungeva Alvaro (1954), ricevono «dal governo il sussidio degli internati, costretti all’ozio, fuori da ogni possibilità di costruirsi una vita da uomini, e sia pure da poveri uomini, giacché Gaeta non offre molto ai suoi stessi abitanti. Se si pensa che tutta la vicenda di Africo, altro paese sinistrato, costò al Governo un miliardo e mezzo, quello che fu il campione dei paesi poveri della Calabria si sarebbe potuto costruire poco lontano dal suo vecchio luogo e nell’ambiente naturale degli abitanti. Ma le cronache meridionali sono fatte di vicende assurde come queste, cui sembra presiedere la più grottesca fantasia».
Quegli elementi che provocano morte e devastazione potevano essere la salvezza di contadini e braccianti miseri e spesso affamati. «Pensare che questi torrenti possano essere racchiusi in laghi montani, e sono diecine; che la Calabria possa diventare la più grande riserva di energia elettrica d’ Europa; che migliaia di ettari di terreno possano essere riscattati al lavoro degli uomini; che la malaria e il deserto delle spiagge possano essere vinti, è un sogno da dio» (Un treno nel Sud)
Un sogno che non risponde, però, agli interessi dei ceti dominanti.
«Sulle catastrofi della Calabria, si sono formate fortune imponenti. Per dare lavoro ai disoccupati, si sono spiantati boschi che poi costano la vita a interi villaggi. […] Lo Stato interviene spendendo somme ingenti a fortificare i paesi pericolanti; e a distanza di pochi anni le crepe segnano i bastioni che trattengono la terra» (ivi).
Terremoti, ma anche disboscamenti insensati, malaria, mancanza di acqua potabile, ricerca di nuovi spazi produttivi e di siti in prossimità della ferrovia e alluvioni dissolvono e sgretolano le comunità, ma allo stesso tempo permette la nascita di élite senza scrupoli, di classi dirigenti corrotte, la generazione di «fortune imponenti» e di pervasivi sistemi clientelari.
«La storia delle opere pubbliche in Calabria, è anche troppo nota nella regione. Di quelle elargite dal passato regime, che nell’Italia meridionale faceva una politica stagionale di opere pubbliche come un palliativo alla disoccupazione, non resta quasi più traccia. […] la Calabria dà sempre l’impressione d’una terra pericolante in continua riparazione; le riparazioni appaiono puerili di fronte alla furia improvvisa degli elementi, costano molto allo Stato, da non lasciare margine alle opere fondamentali» (Un terno nel Sud).
Quella che è mancata è stata sempre la ricerca di una soluzione definitiva, radicale.
«Non si è mai tentata una soluzione radicale. Avrebbe dovuto essere lavoro e cura di intere generazioni, di sagaci amministratori e non di fondi messi a disposizione per lavori di ripiego che danno cattivi risultati anche nella formazione morale dei lavoratori, i quali sanno che si tratta di forme larvate di sussidio, come lo sanno molte imprese».
Alvaro aveva già descritto la mobilità, la fuga, le trasformazioni seguite all’unificazione nazionale, alla discesa lungo le coste e le marine, alla costruzione della ferrovia e all’emigrazione di fine Ottocento e inizio Novecento e poi alla grande guerra. L’emigrazione per Alvaro è, certo, dispersione e anche erosione dell’antico ordine, ma anche scelta di libertà e di miglioramento delle condizioni di vita. Non a caso il Sud ha combattuto tutte le guerre dell’Italia, considerandole un’evasione e una breccia per l’emigrazione. Con il nuovo grande esodo «l’Italia meridionale tenta un’evasione interna, si inserisce dappertutto, fornisce la burocrazia e la polizia: in altri termini, meridionalizza la nazione».
L’immagine suggestiva che Alvaro ci consegna è quella «d’una primitiva tribù che abbandona una terra inospite».
del cielo.
I racconti e i saggi dello scrittore sono popolati di gente, di donne, di ragazzi che viaggiano per cercare e prendere l’acqua. La donna che cammina con l’orcio dell’acqua appare quasi una figura archetipa e rivela una sensualità rigeneratrice. L’orcio si presenta come una sorta di oggetto sacro all’interno di una cosmogonia basata sull’acqua che genera e rigenera. L’acqua conferisce forza e sicurezza; rinsalda e ristabilisce i legami, crea comunione tra le persone. L’acqua è ricerca, desiderio, elemento distintivo delle persone in perenne viaggio. L’acqua rivela nostalgia del mondo d’origine, memoria della terra, della madre, delle donne.
Il ritorno, sognato, immaginato, rare volte reale (ma sempre accompagnato da delusione), nel paese o nel mondo di origine è segnalato o viene tradotto in un graduale riconoscimento e in una lenta riappropriazione della natura, dei prodotti della terra, dell’acqua. Alvaro parla dell’archeologia dei paesi assetati e disegna la loro particolare dipendenza dall’acqua che mancava e che era faticoso avere facilmente a disposizione, come scrive in Itinerario Italiano:
«…In quel tempo si cercavano le altri fonti ai piedi della montagna che sono tante, disposte a quinte per la valle, e lontane. Gente andava vagabonda qua e là, perché i luoghi delle sorgenti cambiano di anno in anno. Sono quelli i tempi della sete improvvisa e inesorabile, e l’uomo è tutto un groviglio di radici assetate; tutto la terra sospira all’acqua, la ricordano le grosse piante e i cardi d’un verde ramarro che hanno una linfa sotterranea che li gonfia. Per tutta la contrada si scoprono le vestigia più antiche dell’acqua, come se anch’essa fosse un popolo migrante».
Parlando della Calabria (ma anche della Turchia, della Russia, dell’Agro Pontino) scrive che «noi abbiamo cercato mondo anche per l’acqua» (Alvaro, Itinerario Italiano).
Amitav Ghosh, uno dei più grandi scrittori viventi e dei maggiori conoscitori dei mutamenti climatici, ha descritto la “grande cecità” degli scrittori di tutto il mondo in epoca moderna e contemporanea. Alvaro è, invece, eccezionale anche nel descrivere l’ambiente, il paesaggio, la bellezza della “natura”, le grandi calamità, della crisi climatica, della mentalità e della psicologia, dei riti di abitanti di una “terra inquieta”, mobile, in fuga. Dai tempi di Alvaro non si è avuto alcun progetto organico di messa in sicurezza del paesaggio e dei paesi, delle case e delle scuole, al più interventi a pioggia per recuperare antichi palazzi cadenti in centri storici morenti e senza prospettiva. Le opere incompiute, provvisorie, precarie, la tendenza a rinviare sempre a poi, a domani o a mai sembra un “carattere” che i ceti dominanti e politici della Calabria e dell’Italia. A settant’anni delle descrizioni di Alvaro i paesi sono deserti, in chiusura. Senza che chi governa, adesso, possa chiamare in causa la natura, cercare alibi, nascondersi, dopo ogni catastrofe annunciata, con un «noi non sapevamo», che diventa un «non accadrà mai più», a cui ormai nessuno più crede.
Dialoghi Mediterranei, n. 34, 2018
Riferimenti bibliografici
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