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il racconto

La morte, l’infanzia, la vita

E forse, come nelle favole della vita, in un «istante» della 4.50 di quell’11 giugno 1956, Corrado Alvaro aveva «raggiunto» la madre per comunicarle dove si trovava, mentre Laura pregava in una sta…

Pubblicato il: 24/05/2025 – 18:28
di Vito Teti
La morte, l’infanzia, la vita

«Durante una malattia un individuo rivede la sua vita, e si domanda di che cosa sia stato punito. Vede profondamente i suoi errori, le sue colpe. Decidere se vivere o morire. Vivere per riparare, ecc. […] E poi ci si domanda: perché? Credevo che ciò accadesse soltanto alla fine della vita, quando uno vede, a quanto dicono, tutto, come sotto un lampo che illumina per un attimo il paesaggio, e l’occhio percepisce ogni particolare, rivede in un istante quello che aveva notato per lunghi anni, e seguita a percepirlo ancora, come su una lastra fotografica, mentre tutto è ripiombato nell’oscurità. Così uno rivede il passato, fino a ieri, da illusione a illusione, e più nulla ha senso». Così Alvaro in un brano del suo diario ricordato da G. B. Angioletti a un anno della sua morte.
In quell’ultima «notte molto lunga», mentre Cristina Campo ascolta «il brusio della pioggia e il tuono del suo respiro», in quell’istante prima che tutto piombi nell’oscurità, «dopo una lotta che appariva una suprema concentrazione», prima che nulla abbia più senso o tutto cominci ad avere un altro senso, quale passato avrà rivisto? Avrà ricordato l’infanzia a S: Luca o la dura scuola a Mandragone e al Galluppi da Catanzaro? I compagni del Liceo o quelli al fronte? Gli amici scrittori dei giornali e delle case editrici? I suoi successi, i riconoscimenti, le sue delusioni? Le aggressioni dei fascisti o le accuse degli antifascisti a un Alvaro tiepido e a volte indulgente col regime? Avrà rifatto tutti i suoi viaggi a Berlino e a Parigi, in Italia e nel Sud, in Turchi e nella Russia Sovietica? Avrà scritto altre pagine di un diario ancora più ultimo e intimo? Avrà risentito gli odori del mondo sommerso o quelle della mondanità alla quale non si era mai adeguato? Avrà navigato, tra espiazione e riconciliazione, tra “mondo della tradizione” e “mondo moderno” (come scrive Pampaloni), tra l’uomo del Sud, figlio dì una civiltà che scompare, e l’uomo che si avventurava nell’inebriante crocevia d’Europa, nel tentativo di comprendere il senso di quell’ambivalenza.
Domenico Zappone nel 1957 pubblica su «Il Giornale d’Italia» l’articolo “La madre di Alvaro”. Il racconto bellissimo e struggente di una visita, a Caraffa del Bianco, a casa di don Massimo, per trovare la madre, che non sa della morte di Corrado. La notizia le è stata pietosamente nascosta per risparmiarle un dolore. Zappone, però, ha la sensazione che la donna ammalata partecipasse della finzione. La madre di Alvaro non sembra dare retta al forestiero che le porta i saluti del figlio Corrado, di cui si dice amico. Zappone osserva la casa in rovina, la donna di paese che fino a poco tempo fa aveva impastato pane, e di cui Alvaro ha lasciato descrizioni e pagine splendide, e teme di aver turbato un ordine «un antico ritmo fatto di gesti e di echi». Fa per andare via, quando pensa di indicare alla donna le calze che portava, le stesse, dice che Corrado usa d’inverno perché tengono caldo e proteggono dall’umido. La donna «d’impeto, solleva il capo, risponde che suo figlio non usa quelle calze». «“Usa calze di seta”, obietta vibrante, e ormai il gelo è rotto, il discorso, magari intervallato da lunghe pause, è ormai avviato». La madre di Alvaro comincia una lunga nenia di ricordi e di racconti, come accadeva nei lutti quando si elencavano le azioni e le virtù del defunto. Parla di quel «figlio d’oro» che da bambino non aveva dato mai un dispiacere né a lei né al marito e che «i compagni lo rispettavano come un comandante», quel figlio che dalla strada chiamava per domandare se era ora di rientrare e che era già sapiente, ricordava tutto a mente e le donne se lo contendevano all’uscita da messa perché ripetesse quanto avevano ascoltato e avevano già dimenticato. Il figlio che «andava alla dottrina dallo zio Gianpaolo» e a Natale s’incantava davanti al presepe. Il padre gliene costruiva sempre uno e una volta che rimase «un poco più a lungo in chiesa per la cerimonia dell’epifania, quando rientrò il padre e vide che il padre aveva già distrutto il presepe pianse come se gli avessimo strappato il cuore». Quel figlio d’oro che a Roma si era fatto mandare i pastori di Gioiosa. Quel figlio d’oro…
La madre ricorda poco degli anni difficili del figlio a Mandragone e a Catanzaro, del suo trasferimento a Roma e degli anni dalla guerra. Racconta i ritorni del suo figlio d’oro, ogni quattro cinque anni per trovarla e delle sue domande su come stava il suo cuore. Zappone ricorda il particolare e intenso legame tra Corrado e la madre riportando un brano di “Mastrangelina”: «“Vostra madre vi vuol bene?” – chiese Florestana -. “Molto me ne vuole”. Gli si inumidirono gli occhi, a tradimento come se sentisse curva la voce materna. “Me ne vuole, ma siamo ormai abituati a pensarci da lontano. Me ne vuole come se mi avesse perduto, e io lo stesso. Ma lei sa sempre dove io mi trovo”». Don Massimo ricorda l’ultimo ritorno del fratello per trovare la madre, due anni prima per l’onomastico della donna, quando arrivò a sorpresa e quando volle guardare il paese da lontano. Alvaro dal paese, da Polsi, dall’acqua, dalla madre, dal padre non si era mai allontanato. Da lontano non farà altro che raccontare quel mondo assorbito e catturato nei primi dieci anni di vita.
In “L’età breve”, Alvaro scrive: «In quella stagione della vita, tutto quello che si dice è nuovo, ha un diverso significato dal reale, ha mille significati; poi non si udranno più quelle parole con quel suono e quell’accento, perché si intenderanno troppo alla lettera, mentre nella giovinezza una di quella frasi rimane nel cuore per giorni e giorni, e si risente cercandone il senso che appare di continuo rinnovato, incerto, velato, cangiante, secondo il sentimento dominante. Più tardi si ricordano quelle parole, e si riscopre il loro senso letterale, limitato come si limita la vita, alla stessa maniera che si adoperò nell’infanzia una parola di cui si conosceva appena il suono, dando ad essa un significato tutto fantastico, mentre nella realtà è povero e nudo».

E in “Cronaca e Fantasia” (1934): «A un certo punto della vita, né troppo presto né troppo tardi, l’uomo ha diggià vissuto. Voglio dire che la sua fantasia s’è chiusa, che gli anni a venire non saranno più che l’illuminazione di quelli passati. Le cose avranno perduto il loro potere di rivelazione, le loro suggestioni, e le scoperte saranno rarissime. L’infanzia e l’adolescenza sono i temi fondamentali della vita; una vita riuscita, disse qualcuno, non è che l’adempimento di quello che s’è sognato da ragazzi. Allo stesso modo una vita piena esiste in quanto fu pieno di fatti, di esperienze, di visioni, il tempo giovanile. Ognuno di noi vive nel riflesso di quello che fu ragazzo, e avanzando negli anni i ricordi e le impressioni divengono più chiari, escono dai loro nascondigli, il presente si colora del riflesso del passato. La seconda parte della vita nostra la passiamo come in un paese straniero, in esilio; e ogni mutamento cercato che ci debba mutare ci trova per sempre estranei. […]Accade molto spesso agli uomini di sorprendersi in un atto qualunque, in un movimento di pensieri che sembra ad essi di ripetere come in sogno: non sono altro che le intuizioni dell’infanzia che tornano vive e vere, sono il compimento di un moto dello spirito, un tempo accennato, finalmente compiuto».

Domenico Zappone, quel giorno, nel congedarsi da Antonia Giampaolo, continuando la finzione, le domanda cosa vuole che riferisca a Corrado. «“Ditegli di non venire, di riguardarsi, che sta bene dov’è”, mormora appena. La risposta mi atterrisce. Penso al frammento di “Mastrangelina”…“Siamo abituati a pensarci da lontano…ma lei sa sempre dove mi trovo” come alle terribili frasi delle sibille e dei profeti, quando l’uomo credeva alle favole e aveva altro cuore».
E forse, come nelle favole della vita, in un «istante» della 4.50 di quell’11 giugno 1956, Corrado Alvaro aveva «raggiunto» la madre per comunicarle dove si trovava, mentre Laura pregava in una stanza vicina. Forse Alvaro nella giovane Cristina Campo, che lo curava e lo accudiva, gli dava da bere e lo faceva sorridere, avrà visto una donna e una madre (l’universo femminile, della terra, del pane, della vita da essa evocato) di paese al capezzale del figlio morente. Non sarà andata in questo modo – e cosa cambierebbe per la bellezza e profondità della sua scrittura? -, ma le memorie, le opere, la vita di Alvaro mi fanno pensare che così potrebbe essere stato.

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