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Dal portavivande al portaordini: così il clan dei rom proteggeva il boss latitante

I ruoli all’interno dell’organizzazione per assistere “U Marocchino”, Luigi Vecceloque Pereloque, il leader della cosca dei nomadi di Catanzaro

Pubblicato il: 19/04/2023 – 12:01
Dal portavivande al portaordini: così il clan dei rom proteggeva il boss latitante

CATANZARO C’era chi si occupava di trovargli da mangiare, chi gli consentiva di attaccassi abusivamente alla corrente elettrica, chi lo trasportava nel buio della notte e tra mille precauzioni perché il commando non doveva avere soluzione di continuità. Luigi Vecceloque Pereloque, alias “U Marocchino”, era riconosciuto da tutti come il capo del clan dei rom e il suo spessore criminale era talmente elevato che tutti gli sforzi dell’organizzazione erano concentrati su di lui, anche e soprattutto durante la latitanza. Un gruppo «compatto impegnato per proteggere la sua posizione e per garantirgli la massima assistenza». Dall’ordinanza del blitz con la quale la polizia coordinata dalla Dda di Catanzaro ha colpito il gruppo dei nomadi diventati una vera e propria cosca con tanto di “battesimo” delle storiche consorterie crotonesi emerge il profilo del capo, «esponente di vertice della ‘ndrangheta com’è emerso dall’operazione “Maniscalco” e dalle dichiarazioni della collaboratrice di giustizia Cerminara oltre che dai suoi strettissimi collegamenti con la cosca Arena», scrivono gli investigatori. Luigi Vecceloque Pereloque – riporta l’ordinanza – si rende irreperibile il 29 ottobre 2028 quando l’ufficio esecuzioni penali della Corte d’appello di Catanzaro emette a suo carico l’ordine di carcerazione per pesiate una pena di due anni e quasi 8 mesi per associazione mafiosa, estorsione,usura, ricettazione, armi, droga e pure danneggiamento a seguito di estorsione e furto.

Il ruolo dei membri del clan

Vecceloque – si legge poi – «è stato aiutato da soggetti facenti parte del suo clan mafioso e familiare in qualità di capo riconosciuto da tutti, cosa che gli ha consentito di proseguire la sua attività di direzione della cosca. In particolare, i contributi maggiormente significativi per la gestione della sua latitanza sono stati quelli di Bevacqua Ernesto e Paradiso Antonio, ma si registrano anche i contributi di Candiloro Rocco e di Amato Rita (moglie del latitante) e Vecceloque Pereloque Alessandra (figlia del latitante)». Ognuno aveva il suo compito preciso da assolvere: «Bevacqua – scrivono gli investigatori – ha aiutato il latitante per i suoi spostamenti, infatti in un’occasione lo ha accompagnato dal nascondiglio fino alla sua abitazione. Candiloro ha fornito supporto logistico aiutandolo a contattare i suoi familiari e a reperire cibo. La moglie e la figlia hanno fornito supporto logistico. Paradiso, imprenditore edile, residente in un villa ubicata di fronte al rifugio del latitante, ha consentito a quest’ultimo l’utilizzo di energia elettrica proveniente dalla sua proprietà». Negli spostamenti – ricostruiscono gli inquirenti – Bevacqua riceveva da Vecceloque Pereloque disposizioni sulla direzione della cosca, mentre Candiloro gli forniva anche il proprio telefono cellulare. A un certo punto per la polizia giudiziaria, che aveva seguito Candiloro, si profila anche la possibilità di arrestare il boss latitante e fa anche irruzione nello stabile dove c’era il covo (al pianoterra di un edificio in costruzione) ma Vecceloque Pereloque riesce a fuggire, riporta l’ordinanza. E poi il sostegno economico grazie ai membri del suo clan e alla moglie, «fino al 9 maggio 2019 quando Vecceloque si costituisce in carcere». (c. a.)

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