Gaza chiama Calabria. Sumud significa resistenza e restanza
Incarcerati, rimossi uccisi, i preziosi narratori di quel piccolo angolo di mondo sono vittime di un’oppressione

LAMEZIA TERME «Cosa significa essere poeta in tempo di guerra? Significa chiedere scusa, chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati, agli uccelli senza nidi, alle case schiacciate, alle lunghe crepe sul fianco delle strade, ai bambini pallidi, prima e dopo la morte e al volto di ogni madre triste, o uccisa! Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra? Significa vergognarsi, del tuo sorriso, del tuo calore, dei tuoi vestiti puliti, delle tue ore di noia, del tuo sbadiglio della tua tazza di caffè, del tuo sonno tranquillo, dei tuoi cari ancora vivi, della tua sazietà, dell’acqua disponibile, dell’acqua pulita, della possibilità di fare una doccia, e del caso che ti ha lasciato ancora in vita! Mio Dio, non voglio essere poeta in tempo di guerra» (Hend Joudah, 1983).
Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti, tre ragazzi sotto i 25 anni, poeti, scrittori, già con un’immensa cultura, che hanno curato, per Fazi, “Il loro grido è la mia voce” (Prefazione Ilan Pappé. Con interventi di Susan Abulhawa e Chris Hedges) la raccolta delle trentadue componimenti di poeti palestinesi: «Fare poesia a Gaza vuol dire farla – nell’impossibilità di un luogo – in ogni luogo possibile.


Una tragedia silenziata
Per questa ragione, gran parte dei testi che presentiamo è stata pubblicata in rete, per essere tradotta e diffusa […] La devastazione di Gaza continua a consumarsi nella totale assenza della stampa internazionale, ed è più gravemente silenziata dalla sistematica, minuziosa eliminazione di giornalisti e operatori del luogo. Incarcerati, rimossi uccisi, i preziosi narratori di quel piccolo angolo di mondo sono vittime di un’oppressione tutt’altro che accidentale. Il lettore sarà grato a questi poeti se, nel mezzo di un genocidio, si ritrovano a essere testimoni delle anime esauste che dal Nord marciano verso il Sud, e ancora dal Sud verso Nord di Gaza, con ritmo inconsolabile. Bisogna essere grati a questi tre giovani studiosi che hanno raccolto le poesie e curato la pubblicazione, perché girano, generosamente, l’Italia per testimoniare e raccontare che la poesia è un atto di resistenza, un tentativo di salvezza, anche nelle condizioni estreme. Sono loro grato perché smentiscono clamorosamente il luogo comune dei giovani apatici, indifferenti, lontani dalle culture e dalla politica, facendoci capire che non possiamo stare zitti, fare silenzio, girarci dall’altra parte, scegliere. Lo storico israeliano Ilan Pappé, nella Prefazione a questa raccolta, afferma: «scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resilienza palestinesi. La consapevolezza con cui questi giovani poeti affrontano la possibilità di morire ogni ora eguaglia la loro umanità, che rimane intatta anche se circondati da una carneficina e da una distruzione di inimmaginabile portata».
Queste poesie, osserva Pappé, «sono a volte dirette, altre volte metaforiche, estremamente concise o leggermente tortuose, ma è impossibile non cogliere il grido di protesta per la vita e la rassegnazione alla morte, inscritte in una cartografia disastrosa che Israele ha tracciato sul terreno». «Ma questa raccolta non è solo un lamento», nota il traduttore (cito dalle note dell’editore) Nabil Bey Salameh . «È un invito a vedere, a sentire, a vivere. Le poesie qui tradotte portano con sé il suono delle strade di Gaza, il fruscio delle foglie che resistono al vento, il pianto dei bambini e il canto degli ulivi. Sono una testimonianza di vita, un atto di amore verso una terra che non smette di sognare la libertà. In un mondo che spesso preferisce voltare lo sguardo, queste poesie si ergono come fari, illuminando ciò che rimane nascosto».
La scrittura, come ricordava Edward Said, è «l’ultima resistenza che abbiamo contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità». Il libro, che è anche un’iniziativa concreta di solidarietà verso la popolazione palestinese. Per ogni copia venduta Fazi Editore donerà 5 euro a Emergency per le sue attività di assistenza sanitaria nella Striscia di Gaza. Sono grato ad Antonio, Leonardo Mario (che conoscevo già), perché, ai primi di maggio, impegnati in un giro di presentazioni del libro in Calabria, con la loro amabile e indimenticabile presenza nella mia casa, nel mio paese, nei paesaggi amati delle Serre, hanno reso “pieno” il vuoto, mi hanno fatto aprire, ancora di più, il cuore alla resistenza e alla speranza e perché in una giornata indimenticabile ci siamo trovati a discutere di poesia, resistenza, Gaza, Sud, letteratura e antropologia, fotografie e nuvole, con parole che, lentamente, naturalmente, ci hanno portato a pensare che questa raccolta ha bisogno di una nuova edizione con traduzione delle poesie nelle meravigliose lingue della Calabria. Da allora, Antonio, Leonardo, Mario hanno girato tutta Italia (a Brindisi hanno subito anche il furto della macchina) e adesso sono tornati in Calabria. Instancabili, appassionati.
Antonio Bocchinfuso, questa mattina mi ha mandato il seguente sms: «C’è un termine arabo, presente anche nelle nostre poesie, sumud, che noi di solito traduciamo con resistenza e resilienza, caparbietà, fermezza o perseveranza, ma nessuna di queste traduzioni ne esaurisce il significato. Indica un atteggiamento tipico del popolo palestinese, che da decenni subisce qualsiasi sopruso e inventa sempre nuove strategie per resistere, sopportare, restare radicato. Presentando il libro in Salento ed in Calabria abbiamo azzardato che una delle tante possibili ed insufficienti accezioni con cui tradurlo potrebbe proprio essere restanza. Appena ti abbiamo nominato e parlato di restanza il pubblico ha reagito con entusiasmo. Sono commosso dal fatto che anche i paesini della Calabria possano aiutarci a capire la resistenza palestinese. Un abbraccio!». Sono felice che sumud abbia trovato un’altra possibile traduzione (“restanza”) e che la “restanza” assume, come ho sostenuto fin dall’inizio, nuovi significati oppositivi, nuove valenze di resistenza e di voglia di “restare nella propria terra”, di un nuovo “radicamento”.
Non sono solo ragazze e ragazzi calabresi, del Sud Italia, delle aree interne di tutta Italia, gli abitanti delle isole greche, della Spagna e della Francia “interne”, gli sradicati delle periferie urbane (da ri-generare), gli abitanti dei centri urbani e dei quartieri popolari, che affermano, come ricorda Stefano Portelli nelle sue ricerche e nei suoi libri, “il diritto di restare” e il “diritto di migrare”, ma anche gli indios dell’Amazzonia, le popolazioni dell’Ucraina e, soprattutto, i palestinesi, che qualcuno vuole distruggere come popolo, compie un etnocidio per impossessarsi della terra e dei luoghi da destinare ai nuovi ricchi e potenti del mondo. Resistere, restare, lottare sono certo oggi gli atti più rivoluzionari che possono compiere gli “ultimi” del mondo, anche per coloro che sono costretti (e non scelgono) ad emigrare per guerre, fame, crisi climatica. Sarebbe, davvero, un bel segnale che tutti i paesi e le città della Calabria, i Consigli Provinciali, il Consiglio Regionale, approvassero, all’unanimità, il riconoscimento, dal grande valore simbolico, dello Stato Palestinese. (redazione@corrierecal.it)
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