Rapito dalla ‘ndrangheta e mai più tornato. Il caso del “re della garza” Mario Ceschina
Nel 1976, uno dei più noti industriali lombardi del settore sanitario sparì a Milano. Dietro il sequestro, l’ombra della criminalità organizzata. Dopo il riscatto, solo silenzio e banconote riciclate

Milano, ottobre 1976. Mario Ceschina ha sessantotto anni, un passato da imprenditore di successo nel settore sanitario e una vita costruita tra le mura solide dell’operosità lombarda. Lo chiamano il “re della garza”, un soprannome che racconta meglio di qualsiasi biografia la natura del suo lavoro: tessuti medicali, cotone idrofilo, garze, disinfettanti. Prodotti semplici, nati per curare.
È una sera come tante, il 25 ottobre. Ceschina rientra nella sua abitazione di via Eustachi, una zona borghese di Milano. L’attendono la compagna, Eleonora Molinari, e qualche pratica lasciata in sospeso. Non arriverà mai a casa.
Passano ore, poi giorni. La donna avverte i fratelli dell’imprenditore, Dante e Renzo. Non una parola alla polizia: è la regola non scritta dei sequestri di quegli anni, quando il Nord industriale aveva scoperto, con sgomento, la lunga mano dell’Aspromonte.
Dopo poco, i primi contatti. Una richiesta di trenta miliardi di lire, cifra spropositata anche per un uomo ricco come Ceschina. I familiari trattano, scendono a tre, poi a meno. Le comunicazioni avvengono tramite messaggi cifrati sui giornali. Uno, in particolare, rimane impresso: «Ti prego, torna subito: il gatto sta morendo».
Quando la notizia del sequestro trapela, l’1 dicembre, la famiglia continua a negare. Dice che Mario è all’estero per affari. Ma ormai la vicenda è di dominio pubblico. Il sostituto procuratore Ferdinando Pomarici conferma le indagini e si scaglia contro la stampa: il suo metodo, la cosiddetta “linea dura”, prevede il blocco dei beni e il divieto di pagare riscatti. È una battaglia di principio, ma in quegli anni significa anche mettere a rischio la vita dei rapiti.
Nonostante il riserbo, i Ceschina riescono a consegnare ai sequestratori quattrocento milioni di lire. Poco dopo, i contatti cessano. Nessuna prova di vita, nessuna richiesta aggiuntiva. Un silenzio totale.
Le indagini si spostano a Sud. Il nome di Ceschina finisce negli stessi fascicoli che raccontano decine di sequestri di ‘ndrangheta, tra Calabria e Sicilia. L’ombra dell’Anonima Sequestri, l’organizzazione che aveva trasformato il rapimento a scopo di estorsione in un’industria parallela. Si cerca in Aspromonte, si scavano piste nell’entroterra reggino, ma senza risultati.
Le uniche tracce, anni dopo, saranno alcune banconote del riscatto, ritrovate in mezzo ai soldi sporchi di altri rapimenti. Nulla che possa dire dov’è finito l’imprenditore, o come sia morto.
Di Mario Ceschina non si è saputo più nulla. Né un corpo, né un segnale. Solo un nome scomparso nel buio di un’Italia che, tra gli anni Settanta e Ottanta, contava più di seicento sequestri di persona.
Il “re della garza” è rimasto così uno dei tanti uomini inghiottiti da quella stagione di violenza e paura. Vittima silenziosa di un Paese che non aveva ancora imparato a difendere i suoi cittadini e che, troppo spesso, si è limitato a dimenticarli. (f.v.)
Le storie dimenticate
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